1855: La prima tangenziale di Napoli

di
Gerardo Mazziotti

Al re Ferdinando Carlo Maria di Borbone, sovrano del Regno delle Due Sicilie, che gli chiedeva quanto fosse larga la strada che avrebbe collegato via Santa Teresa al Museo con Mergellina, l’architetto Enrico Alvino rispose che sarebbe stata sufficiente per garantire la percorrenza di due carrozze. Ma il re gli disse che bisognava “realizzare una strada percorribile da almeno quattro carrozze in vista del traffico che si verificherà in futuro nei collegamenti tra i quartieri occidentali e quelli orientali della capitale”. E Alvino eseguì. Quando si dice della lungimiranza della classe dirigente dell’Ottocento. Questo aneddoto mi sembra pertinente per richiamare l’attenzione dei napoletani e dell’attuale amministrazione comunale su un primato borbonico, che non può essere oggetto dei commenti ironici che, in polemica con una recente storiografia sui Borbone di Napoli, certi storici fanno sulla ferrovia Napoli-Portici (la prima d’Italia), sulle Reali acciaierie di Mongiana, sulla Fabbrica della ceramica di Capodimonte, sull’utopia realizzata di San Leucio, sulla Reggia di Carditello e sugli altri “primati” del Regno delle Due Sicilie. Tra i quali la raccolta differenziata dei rifiuti (quando le città del Nord non sapevano nemmeno cos’era e Ugo Foscolo esclamava: “Milano è una cloaca maligna”). Alla fine del 1855 veniva ultimata la strada di collegamento veloce tra la parte occidentale e quella orientale della città di Napoli. Una vera e propria tangenziale, la prima del mondo senza alcun dubbio, posta tra i quartieri spagnoli e la collina del Vomero, dal Largo del Mercatello (oggi piazza Dante) a Mergellina. Una strada panoramica e attraversata da moltissime scalinate che, una volta, erano l’unica possibilità di comunicazione tra la città ed il Vomero. Tra queste la famosa scalinata Pedamentina, che, a sentire il poeta “porta le persone in buona salute fin su a San Martino”. In onore della regina la nuova strada carrabile venne chiamata corso Maria Teresa. Otto anni dopo prese il nome di corso Vittorio Emanuele II a seguito della conquista piemontese del Regno delle Due Sicilie. Me lo ricordo attraversato dai binari del tram, che prendevo ogni mattina per recarmi dalla mia pensione in piazza Mercadante alla facoltà di Architettura in via Monteoliveto e viceversa. Pur trattandosi del mezzo di collegamento più diffuso il sindaco Lauro ne decise la soppressione. E sarei tentato di condannarlo più per questa scellerata decisione piuttosto che per il sacco di Napoli, ingiustamente contestato solo a lui e non alle amministrazioni successive. Per il necessario rispetto della storia (diceva Leonardo Sciascia che “lo stradario di una città può considerarsi un grande libro della sua storia, aperto alla consultazione, sia pure veloce, della gente”), insisto sulla necessità di ripristinare l’intestazione originaria. Tanto più che ai Savoia sono stati intestati troppi siti cittadini a fronte dei pochissimi che ricordano i Borbone. È sconsolante vedere questa importantissima arteria ridotta a un budello di defatigante e pericolosa percorribilità: viene autorizzata la sosta delle auto sui due lati con conseguente restringimento della carreggiata (gli autobus pubblici corrono spesso il rischio di restare bloccati per ore); nessun vigile impedisce allo sciame dei motorini di invadere la corsia opposta col rischio, evitato per miracolo, di andare sbattere contro le auto che lo percorrono in senso inverso; viene tollerato che su alcuni marciapiedi svolgano la loro attività i fruttivendoli, gli elettrauto e le officine meccaniche costringendo i pedoni a servirsi della strada carrabile a proprio rischio e pericolo. Insomma, uno spettacolo indecoroso. Non degno di una città civile. Un buon motivo per il sindaco de Magistris per ridare al corso la originaria denominazione e la sua originaria funzione di collegamento veloce della città. Le strade carrabili sono fatte per le auto in movimento e non per quelle in sosta.

Fonte: ROMA online del 21 marzo 2013



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