FALSE PRIMOGENITURE STORICO-LETTERARIE

di Antonio Pulcrano

La Rai, per la Sezione Rai Cultura, ha trasmesso, a tarda notte, un interessante programma, scritto e presentato dall’onnipresente Alessandro Barbero, su Dante e la sua vita, definendo, fin dalle molteplici presentazioni, il Sommo Poeta come il “Padre della Letteratura Italiana”.
Ebbene, sappiamo che Alighiero Durante, detto Dante, fu il rampollo prediletto di una ricca e chiacchierata famiglia fiorentina, che, tra litigi, fughe, agguati falliti ed esili, trovò il tempo e la voglia di scrivere uno dei maggiori Capolavori della Letteratura mondiale, ma che certamente non fu il “Padre della Letteratura Italiana”, come pure il “volgare” fiorentino, normalmente accreditato come lingua madre dell’italiano scritto e parlato, in sostituzione del latino, risulta tale per una voluta forzatura storico-letteraria.
Francesco De Sanctis, letterato e critico, “patriota” e parlamentare del neonato Regno d’Italia, nato a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis), inizia la sua monumentale “Storia della Letteratura Italiana”, – data alle stampe in due volumi nel 1870 (la data è importante, in piena “restaurazione” antimeridionale), – con il capitolo “I Siciliani”, facendo così comprendere che gli albori della Lingua italiana siano da ricercarsi alla corte di Federico II di Svevia a Palermo.
Inutile dire che il volgare, già da oltre un paio di secoli prima di Dante iniziò ad affermarsi come lingua parlata tra il popolo, specie nelle zone centro-meridionali della penisola, trovando la sua massima espressione letteraria, infine, presso la Corte di quel grande sovrano illuminato che fu Federico II, “chierico grande”, cioè uomo dottissimo, come lo definì lo stesso Dante, il quale scrisse perfino, nel De vulgari eloquentia, che il dialetto siciliano era già sopra agli altri. “E in Sicilia troviamo appunto un volgare cantato e scritto…che è già un parlare comune a tutt’i rimatori italiani, e che tende più e più a scostarsi dal particolare del dialetto, e divenire il linguaggio delle persone civili”. (Così il De Sanctis!).
A Palermo quindi confluivano tutti i maggiori letterati dell’epoca, da ogni zona del Sud Italia, pugliesi, napolitani, salentini, calabro-siculi…e lì comparve per la prima volta un componimento in rime, una “cantilena” scritta in volgare, di certo Ciullo di Alcamo, datata intorno al 1231, considerato in assoluto il primissimo scritto in volgare della Storia della Letteratura italiana. Si pensi che Federico II è morto nel 1250, addirittura 15 anni prima della nascita di Dante, mentre si ritiene datata intorno al 1250, invece, la prima “canzone” in rime, di certo Folcacchiero da Siena, che espresse per iscritto le nuove tendenze parlate e letterarie provenienti da tutto il centro Italia.
Francesco De Sanctis scrive testualmente: “Quale delle due canzoni sia anteriore” – ma lo è quella di Ciullo di Alcamo – “è cosa puerile disputare, essendo esse non principio, ma parte di tutta un’epoca letteraria, cominciata assai prima, e giunta al suo splendore sotto Federico II da cui prese il nome”.
Ergo, Dante Alighieri non può essere considerato “il Padre” della letteratura italiana, ma soltanto colui che diede al volgare una conferma, una valenza letteraria propria. Occorreranno secoli, con altri scrittori e poeti, primi fra tutti il Manzoni per la prosa e Torquato Tasso per la lirica, per vedere affermare un lessico in continuo divenire, che peraltro si radicherà nel parlato comune degli Italiani soltanto nella seconda metà del secolo scorso, con la scuola di massa e l’avvento della radio e della televisione, preferendo, spesso ancor oggi, dei vernacoli che sono anch’essi vere e proprie Lingue, il più delle volte ancora più espressivi e completi dell’italiano.
Quest’anno ricorrono i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, ricorrenza che, per carità, è giusto e sacrosanto celebrare essendo egli uno dei più grandi scrittori e poeti della storia dell’umanità intera, ma è altrettanto giusto e sacrosanto rivendicare certe primogeniture meridionali, visto come a molte altre c’hanno fatto abiurare, relegandole nell’oblio dei secoli.

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