Nell’ambito di questa riscoperta, si muove la recente inchiesta storica proposta da Maurizio De Tullio e riportata dal periodico “RINASCITA” nell’edizione del 21 settembre 2011.
Buona lettura.
De Tullio – le cui opere più volte sono state recensite su queste pagine (24 giugno, 14 e 28 luglio 2009, e 16 gennaio 2010) – direttore del bimestrale foggiano “Diomede. Tra passato e futuro”, si avvale degli interventi e contributi di Massimiliano Sponzilli – direttore dell’Istituto nazionale per il Commercio Estero a Singapore, nonché docente alle Università di Trieste e Milano-Bicocca; del poeta e saggista Rosario Brescia e del giornalista Alessandro Galano.
La questione meridionale non è mai giunta a soluzione in trenta lustri. La mafia e la camorra furono richieste e rivitalizzate dai piemontesi per meglio controllare il territorio, mentre l’esercito sabaudo avanzava a stento nell’Italia meridionale. Il “brigantaggio” è stato, quindi, forma militare della rivolta contadina contro i “galantuomini” rifattisi liberali e risposta socio-politica alla perdita dell’indipendenza e a “liberatori” che si esprimevano in francese. I “liberatori” si esprimono sempre in un idioma sconosciuto.
L’Italia dei Savoia prese a saccheggiare il Regno delle Due Sicilie – privandolo innanzitutto delle sue immense riserve auree – rendendolo una miserabile Colonia delle “Due Sardegne”, molto simile al proprio possedimento posto a sud della Corsica. Consiglio la visione dello sceneggiato televisivo in sette puntate diretto da Anton Giulio Majano, “L’eredità della priora” (1980), e del film con regia di Pasquale Squitieri “Li chiamarono…briganti!” (1999) (1).
Il fascismo bloccò il processo sabaudo, fingendo di non vedere e congelando il tutto col vietare l’argomento in un tentativo d’omogeneizzazione nazionale. La Repubblica cercò di rimediare col varo di leggi speciali, provvedimenti finanziari, sgravi, ecc. Ossia creazioni della doppia faccia del clientelismo diccì-piccì, i quali hanno sempre agito di comune accordo sia nell’elaborare che approvare le leggi finanziarie, che a dividersi i consensi in specie nella spartizione delle regioni australi.
Furono varate la riforma agraria e la Cassa del Mezzogiorno, facce della stessa medaglia consociativa. La prima non pienamente attuata e male proseguita per, al contempo, alimentare per poi frenare le illusioni “colcosiane” dei contadini di fine anni Quaranta – in seguito scappati al settentrione o nel resto del mondo per evitare ripetute Portella della Ginestra e l’inedia. La seconda, facitrice di cattedrali del deserto in zone poco mature, e promotrice di enti, aziende, istituzioni, consorzi e quant’altro, ove i partiti ci potessero sguazzare e “spalmare” il proprio consenso. Assieme, apparato ghiandifero per il sostentamento di destra e “sinistra”.
Per finire un chiarimento sullo storico nome del regno meridionale. La Sicilia si distaccò dalla Spagna nel 1713 per dar vita al primo regno dei Savoia; per breve tempo, in quanto dal 1718 passò all’Austria; e nel 1734, col Mezzogiorno, formò sotto i Borboni il regno delle «Due Sicilie», mantenendo però i suoi ordinamenti separati. A questo punto è interessante rilevare che il nome di «Due Sicilie» ebbe origine dal fatto che, dopo i Vespri siciliani, tanto gli Aragonesi (effettivi sovrani di Sicilia) quanto gli Angioini (re di Napoli ma pretendenti sempre al dominio dell’Isola) portarono il titolo di re di Sicilia. Per cui, quando Alfonso V d’Aragona il Magnanimo (1396-1416-1458) riunì in sé le due corone (1443), assunse il titolo di re delle «Due Sicilie»: alla sua morte l’unità si spezzò. Invece, Giuseppe Napoleone Bonaparte fu solo nominalmente re delle «Due Sicilie» (1806-08), in quanto non aveva giurisdizione sull’Isola, in mano dei Borboni; per cui, concretamente, il successore Gioacchino Murat (1808-15) ritenne solo il titolo di re di Napoli. Ai Borboni la Sicilia rimase anche nei periodi in cui essi persero il Continente (1806-15), e nel 1812, auspice Lord William Cavendish Bentinck (1774-1839), ebbe una costituzione parlamentare elaborata da Paolo Balsamo sul modello inglese, conservando la divisione amministrativa creata dagli Arabi quasi un millennio prima.
di
Maurizio De TullioSiamo in pieno 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, già celebrato il 17 marzo e, com’era prevedibile, visti i tempi, infuriano le polemiche. Ognuno cerca di tirare la coperta dal proprio lato, scoprendo l’altro, così come, i
nvece di guardare al futuro e nell’ottica di una nazione e di un popolo veramente uniti, si tenta di fare la conta di chi ha più colpe, di chi le ha combinate più grosse.
Altra cosa è la ricerca storica, l’inchiesta giornalistica, che devono camminare – ogni giorno – con le mani libere, ed altra cosa ancora è la discussione politica, quella alta, non certo la caciara leghista, movimento prima e partito poi che da quando esistono non hanno mai fatto mistero della volontà di separare nord e sud, con un colpo di spugna, come se ciò fosse logico e giustificabile prima ancora che possibile.
Intendiamo dare uno sguardo, ampio, a ciò che oggi si muove attorno al “mito” dell’Unità d’Italia. Gli interventi che ospitiamo, compresa la recensione al libro del collega Pino Aprile (Terroni, presentato anche a Foggia recentemente), sono volutamente univoci: danno spazio a opinioni che non esitiamo a definire “forti” e attendono voci opposte, che sostengano opinioni del tutto diverse e magari cariche di altrettanto peso polemico.
Non vogliamo arrivare ad un referendum, non ce n’è bisogno. Ma, come Pino Aprile, sosteniamo che sapere è sempre necessario per poter decidere in tutta autonomia e piena convinzione.
Interventi & Contributi
Nel 1856 il Regno delle Due Sicilie era il terzo Paese più industrializzato al mondo.
A favore di un Mezzogiorno decaduto. L’eccellenza del Regno Borbonico
di Massimiliano Sponzilli
Con sobrietà, quasi in sordina, hanno avuto inizio le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Restano, tuttavia, ancora numerose le voci dissonanti e appaiono distanti le analisi sul processo di unificazione e sui suoi stessi risultati.
Nella realtà storica, la spedizione dei Mille di Garibaldi forzò totalmente la situazione, presentando a Cavour l’opportunità di offrire ai Savoia il regno d’Italia e non della sola “padania” come, invece, previsto dagli accordi segreti di Plombières negoziati dallo stesso Cavour con Napoleone III.
Ma il Mezzogiorno, prima di Garibaldi, era davvero la «negazione di Dio in terra», come ebbe a scrivere Gladstone?
Giuseppe Garibaldi giunse a Napoli, in treno, verso le ore 13 del 7 settembre 1860 ove fu accolto dagli “oppositori” dei Borbone. Alla testa del corteo che seguiva la sua carrozza si trovavano i capi della camorra (“Tore ’e Criscenzio”, Jossa, Capuano, Mele), seguiti dalla tavernaia Marianna De Crescenzo, detta la “Sangiovannara” a favore della quale Garibaldi decreterà una pensione di dodici ducati al mese, accompagnata dalle prostitute “Rosa ‘a pazza”, “Luisella ’a lum a ’ggiorno” e “Nannarella ’e quatt’rane”. Questa era l’ “opposizione”!
Il Regno dei Borbone, per contro, aveva offerto all’umanità il genio di Giambattista Vico (1668 –1744), l’acume di Ferdinando Galiani (1728-87) il barocco di Domenico Scarlatti (1685-1757). Inoltre, esso vantava rilevanti eccellenze. In soli 270 giorni, 41 anni prima della Scala e 51 prima della Fenice, era stato costruito il teatro San Carlo. All’Esposizione Internazionale di Parigi del 1856 il Regno delle Due Sicilie era stato riconosciuto quale terzo Paese più industrializzato al mondo. La prima ferrovia in Italia (Napoli-Portici, 1839) offriva biglietti ridotti ai cittadini meno abbienti, «alle persone di giacca e coppola, alle donne senza cappello, ai domestici in livrea ed ai soldati e bassi ufficiali del real esercito». Ma con i Borbone furono anche realizzate, nel 1839, la prima illuminazione a gas in Italia e, nel 1858, la prima galleria ferroviaria al mondo.
Il Mezzogiorno vantava anche rilevanti industrie, come l’impianto metalmeccanico di Pietrarsa, che impiegava circa duemila operai, o i cantieri navali di Castellammare che vararono il primo battello a vapore con propulsione ad elica, il Giglio delle Onde, ed i primi esperimenti di lavoro sansimoniano.
Infine, era rimarchevole la solidità della finanza pubblica. Francesco Saverio Nitti (1868-1953), nel suo La scienza delle finanze (Napoli, 1903) (2), rileva che al momento dell’unificazione d’Italia le riserve del Regno Borbonico ammontavano a 443 milioni di Ducati-oro, pari a quasi il 70% del patrimonio di tutti gli stati pre-unitari messi insieme.
Tuttavia, le politiche di sviluppo economico e perfino le scelte nei progetti infrastrutturali seguite alla riunificazione non furono premianti per il Mezzogiorno. Ed iniziò quel declino e quel processo involutivo culminati nell’odierno assistenzialismo esasperato che ha portato larga parte della popolazione a vivere di prebende e malaffare e facendo sempre più del Mezzogiorno una periferia incompresa, ed anche disprezzata.
Il punto, allora, riconosciuta la realtà storica, è la necessaria identificazione del cosa e del come fare perché il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia divenga l’inizio di un processo di rinascita e valorizzazione del patrimonio morale, culturale e produttivo di una parte significativa del nostro paese che tanto può e merita di esprimere per costruire, in un sano e coerente sviluppo, il benessere delle proprie genti.
Unità d’Italia e dintorni (II)
Il brigantaggio: oppositori o malfattori?
Contadini nullatenenti ridotti alla fame da una miseria antica, ex soldati borbonici, giovani renitenti alla leva: furono questi i principali protagonisti di una rivolta sociale, espressione esasperata del malessere delle classi contadine, che infiammò il Meridione all’indomani dell’Unità d’Italia. Nel 1861, infatti, il Sud era in rivolta contro il nuovo sistema piemontese poggiato su classi agiate del latifondo e della borghesia, contro l’abolizione degli usi e delle terre comuni, contro nuove ed esose imposte e il regime di occupazione militare.
Il fenomeno, che caratterizzò in maniera drammatica quel periodo travagliato della storia del Meridione, prese il nome di “brigantaggio”. E mentre ieri Francesco Saverio Nitti, riferendosi alle condizioni dei meridionali, scriveva: «briganti o emigranti» oggi ancora riemerge, spesso in maniera contrastante, il dibattito su quella che viene indicata ancora come questione meridionale. Ma chi furono veramente i briganti, legittimi oppositori o semplici malfattori? (M.D.T.)
Le differenze fra la piaga del banditismo e il f
enomeno del brigantaggio.
Dall’«esercito dei cafoni» alla manovalanza d’emigrazione.
di Rosario Brescia
Il fenomeno del brigantaggio rappresentò nel Meridione d’Italia un evento particolarmente vasto e dai diversi aspetti. Vi fu infatti un brigantaggio delittuoso e criminale, che accolse tra le proprie fila malviventi e assassini votati alla grassazione e pronti ad uccidere per il facile profitto. Le zone della Puglia settentrionale rimasero tristemente famose per la presenza di tali banditi e per la frequenza delle loro aggressioni, che si consumavano in quel difficile passaggio rimasto tristemente noto come il Vallo di Bovino. Infatti, in quel pericoloso transito, lungo il passaggio della strada che da Benevento portava alla piana foggiana, orde di masnadieri assaltavano viaggiatori e commercianti i quali, spesso, prima di mettersi in viaggio erano addirittura costretti a lasciare testamento.
Vi fu, però, un’altra tipologia di brigantaggio, diversa se non nei modi sicuramente nelle motivazioni che lo animarono e lo sostennero: quello cosiddetto politico, il brigantaggio postunitario e reazionario che si oppose ad una unificazione sostenuta con le armi e con leggi che continuavano a privilegiare le classi agiate, anziché promuovere riforme importanti e rispettose della povertà.
A questo si aggiunse anche l’istituzione del servizio di leva che, all’indomani dell’Unità – reso obbligatorio per tutti – andò inevitabilmente a sottrarre braccia alle già misere famiglie contadine del Meridione.
Disperato e ancora maltrattato, il Sud probabilmente non colse la logica e la bontà di un’operazione importante come l’Unità d’Italia. O probabilmente non si ebbe la capacità di incentivare un evento tanto apprezzabile quanto oggettivamente difficile da attuare, che se non altro necessitava di riforme sociali responsabili e importanti. E le misere condizioni di un popolo affamato non mutarono, ma per certi versi, peggiorarono. La logica delle armi infine prevalse sulle ragioni del miglioramento, e un esercito bene armato fece valere il nuovo ordine sabaudo che si sostituì a quello borbonico. La politica repressiva piemontese a distanza di alcuni anni in effetti si rivelò efficace per debellare il brigantaggio meridionale che, però, era solamente il sintomo, elevatosi a simbolo sanguinario, di un vasto malessere. Molti braccianti si fecero briganti, infatti, sperando probabilmente di ottenere un minimo di riscatto da antiche ingiustizie e dalla squallida miseria che da sempre li opprimeva. Ma rabbia e disperazione poco fanno contro fucili e baionette.
L’esercito piemontese per quasi cinque anni si trovò a fronteggiare «l’esercito dei cafoni»: moltissime bande armate, capeggiate da ex soldati borbonici e favorite da contadini nullatenenti ridotti alla fame da una miseria antica.
Non mancarono le donne, pronte a difendere anche con i denti i loro uomini fuggiti nei boschi.
Il capo brigante santagatese Giuseppe Schiavone
Nella sola Capitanata furono censiti oltre 1500 briganti. Tra questi, rimasto famoso per le sue notevoli imprese, il capo brigante Giuseppe Schiavone Di Gennaro, soprannominato Sparviero (n. 1838), di Sant’Agata di Puglia. Descritto in diversi testi sul brigantaggio come uomo di spericolato coraggio, la sua baldanza lo portò presto al comando di una delle bande di quell’esercito che, comandato da Crocco, il “Generale” dei briganti, nell’aprile-novembre del 1861 marciò su Melfi, Ripacandida, Venosa, altri paesi del Vulture sino a tentare la conquista di Potenza.
Schiavone morì fucilato in Melfi nel 1864 con alcuni suoi fidati compagni: Giuseppe Petrella di Deliceto, Rocco Marcelli, Pietro Capuano di Anzano di Puglia e Vito Rendola, anche lui santagatese.
Stessa sorte toccò a tantissimi altri briganti condannati per direttissima, spesso senza neppure uno straccio di processo nel quale potersi difendere. Tra loro anche molta gente inerme che, a seguito della tristemente famosa Legge n. 1409 del 15 agosto 1863, detta “Legge Pica”, si ritrovò molto spesso ingiustamente accusata di complicità (essa stabiliva che poteva essere qualificato come brigante – e, dunque, giudicato dalla corte marziale – chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone).Ma chi furono veramente i briganti? Legittimisti oppositori che non vollero piegarsi alle regole di un nuovo Stato venuto con le armi e da lontano, o più semplicemente malfattori, banditi, come spesso riportato dalla storiografia ufficiale che tuttavia non ha mai indagato a fondo il fenomeno, partendo magari anche dai motivi che lo animarono e passando, soprattutto, anche attraverso la spietatezza con la quale fu debellato? Il dibattito è ancora oggi intenso e quanto mai attuale. E spesso riemerge a coinvolgere uomini e opinioni.
Come avvenne alcuni anni fa, quando il Sindaco di un comune lucano avanzò la proposta di intitolare una strada ai “Briganti Lucani”. Ferma e decisa, la risposta del Prefetto di Potenza non si fece attendere. Niente strade da intitolare ai briganti. «Il termine brigante – scrisse la Prefettura, come riportarono i giornali – è sinonimo di malvivente che, stando alla macchia, compie azioni criminose come membro di una banda organizzata – precisando che – i briganti si resero responsabili di gravissimi reati quali omicidi, rapine, estorsioni».
Per tentare di raccontare la storia dei vinti, e le ragioni che spinsero «il popolo dei cafoni» a ribellarsi, si levarono subito numerosissime voci, prima fra tutte, autorevole, quella del noto e valente scrittore lucano Raffaele Nigro che in un interessante, appassionato e provocatorio articolo dal titolo Onore ai briganti, siamo figli loro, spiegò su “La Gazzetta del Mezzogiorno” i motivi per cui si diceva favorevole all’intitolazione di una strada dedicata ai briganti.
«Noi siamo figli di quei liberali e di quei briganti che ci hanno rimesso le penne sulle montagne centocinquant’anni fa. – scriveva Nigro nel suo articolo – Pedio schedò dodicimila nomi, nomi di sconosciuti… migliaia di silenziosi oppositori e ribelli che magari furono prima con Garibaldi a Calatafimi e al Volturno e poi gli furono contro, quando seppero che aveva permesso a Bixio di fucilare i contadini a Bronte. Perché i contadini si aspettavano la terra e invece si accorsero che c’era stata solo una rivoluzione borghese e non una rivoluzione sociale…».
O briganti o emigranti.
E se di legittima ribellione e opposizione si trattò, come sostenuto nel suo articolo da Nigro, un giorno o l’atro sarà la storia a decretarlo, ci auguriamo. Magari attraverso una più degna attenzione alla memoria dei vin
ti. Quei vinti che definiti sommariamente “briganti” meritano se non altro un’attenta revisione dei fatti e dei tempi che li videro molto spesso, sia pure in maniera agguerrita, disperati inseguitori di una vita migliore e più decorosa.
Una dignità che non solo non trovarono loro, ma che non ottennero neppure i loro figli e i figli dei loro figli. Molti di essi, infatti, videro mutare la propria condizione solo perché da briganti divennero emigranti. Avvalorando proprio quanto sostenuto dal grande Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio, il quale, riferendosi al Meridione d’Italia, scriveva: «In alcune delle nostre province del Mezzogiorno specialmente, dove è grande la miseria e dove grandi sono le ingiustizie che opprimono ancora le classi più diseredate, è legge triste e fatale: o emigranti o briganti».
Secondo alcuni dati dell’epoca, solo intorno al 1876 lasciarono i loro paesi per emigrare oltre 230 mila meridionali.
Ecco, in conclusione, se dunque non è stato possibile qualche anno fa intitolare una strada ai briganti lucani, in attesa magari di una revisione storica più attenta e profonda una via in qualche paese del Sud la si potrebbe intitolare a tanti loro figli e nipoti. A tutti quei meridionali, insomma, che all’indomani dell’Unità d’Italia dovettero abbandonare i loro poveri paesi per cercare altrove un minimo di sostentamento dignitoso.
Una strada intitolata agli “Emigranti Meridionali” dunque, se non altro in cambio di quella via da loro spesso cercata, eppure ancora oggi troppo spesso negata. La via del ritorno.
Il recente di libro di Pino Aprile, “Terroni”, che mette tutto in discussione.
L’Unità d’Italia?
Una “brutta bestia” nata male nel gio(g)o di ruoli Nord-Sud
di Alessandro Galano
«Io non sapevo». «Io non conoscevo». «Io non immaginavo». Il saggio Terroni (Piemme, Casale Monferrato [Al], marzo 2010) di Pino Aprile, inizia per negazioni. Ci sono una ventina circa, le quali pongono subito il lettore dentro un dibattito quanto mai attuale.
Pugliese, nativo di Gioia del Colle ma tarantino di fatto, con il suo saggio, Pino Aprile si rivolge a tutti gli italiani e dice: «è sepolta nella nostra anima inconscia una brutta bestia, la memoria di come è stata fatta male l’Italia». D’altronde, il sottotitolo di Terroni è inequivocabile: Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del sud diventassero Meridionali. Attraversando la storia dell’Unità infatti, l’autore analizza il rapporto tra Nord e Sud e arriva sino ai nostri giorni, fino alla Lega Nord e alle autonomie di cui sempre più s’arricchisce (o indebolisce) il Paese, tanto per essere chiari. E analizza lo scacco con cui l’uno tiene l’altro. La chiave, per Aprile, è nel ruolo.
E dunque nel comportamento che segue a questa attribuzione di ruoli fatta con la forza, con il sangue anche, la quale dura da 150 anni e che per 150 anni si è fatto in modo di conservare, rafforzare, preservare. Il Nord sopra il Sud. Il Sud colonia del Nord. Punto.
Nonostante al momento dell’Unità le condizioni socio-economiche fossero opposte, con una ricchezza, culturale e industriale, nettamente spostata al di qua di Roma. Nonostante si sia fatto di tutto per depauperare le risorse del Meridione in favore di un Settentrione che non ne aveva affatto, di risorse. Nonostante ogni intervento abbia avuto, per 150 anni e adesso ancora di più, l’unico fine di arricchire il Nord a spese del Sud.
L’autore porta avanti questo impianto teorico avvalendosi di esempi storici precisi che attraversano tutta l’Unità d’Italia e che lo conducono a porre quella che per lui è l’unica domanda possibile: perché non accade nulla? O meglio, perché loro lo fanno e noi ce lo facciamo fare? E qui, forse attirando su di sé i dubbi di una forzatura concettuale, l’autore si serve di un altro dispositivo scientifico: la psicosociologia.
Secondo questa scienza, dice Aprile, citando esperimenti e aneddoti concreti, bastano 24 ore per accettare i ruoli ed essere indotti a dei comportamenti in assoluta conformità a quei ruoli imposti. La vittima, in sintesi, agisce in modo da rafforzare il ruolo del carnefice. E per l’autore il Sud subisce questo “giogo [con la «g»] di ruoli” da 150 anni e per questo, tornando alla domanda del libro, non accade nulla.
Il saggio lascia più o meno aperta la conclusione ma, per intenderne bene il senso, è opportuno rifarsi alla viva voce dell’autore: «L’Italia è un paese duale perché una parte del paese usa l’altra – ha detto Aprile – perché il Sud è colonia del Nord, da sempre, e non potrà venirne fuori fino a che non sarà padrone delle decisioni che lo riguardano. E non è detto che debba accadere per forza staccandosi. È un modo – conclude l’autore – ma è l’ultimo modo possibile».
Cifre sulle perdite da parte di guerriglieri (briganti) e truppe piemontesi tra il 1861 e il 1872:
Guerriglieri uccisi
154.850 caduti in combattimento; 111.520 fucilati o morti in carcere; 266.370 in totale.
Guerriglieri condannati
328.637 alla detenzione; 10.760 all’ergastolo; 339.397 in totale.
Guerriglieri giudicati
19.850: dopo un processo; 479.000: senza processo; 498.850 in totale.
Soldati piemontesi uccisi tra il 1861 ed il 1872 nella repressione della guerriglia
21.120 caduti in combattimento; 1.073 morti per malattie o per ferita; 820 dispersi o disertori; 23.013 in totale (3).
Note
(1) Il film fu penalizzato dalla critica e registrò un incasso irrisorio al botteghino (75 milioni di lire), dovuto anche all’immediato ritiro dalle sale cinematografiche ed è introvabile sia in supporto VHS che DVD. I motivi della sospensione non sono ancora chiari, sebbene i detrattori parlino di censura. Lo scrittore Lorenzo Del Boca affermò al riguardo che «per ammissione unanime dei commentatori, è stato boicottato in modo che lo vedesse il minor numero di persone possibile». Cionono
stante, il film è divenuto un importante punto di riferimento storico, basandosi su documentazione d’archivio; inoltre ha riscosso grande successo in convegni, ed è diventato argomento di studio in università.
(2) La scienza delle finanze di Nitti, fu tradotta in diverse lingue (francese, giapponese, portoghese, russo e spagnolo) nonché adottata in diverse università, in Italia (fin quando il fascismo lo rese possibile), , Europa centrale, Russia, Paesi dell’America latina.
(3) Dati tratti da http:// www. brigantaggio. net/ brigantaggio/ Documenti/ CarteRivolta.htm