Cultura ed Istruzione nel Regno delle Due Sicilie

(1734-1860)

di Lorenzo Terzi

Cominciamo dalla fine.
Io stesso ho tenuto che nel comunicato stampa con il quale è stata diffusa la notizia di questa conferenza fosse pubblicata una frase citata dallo storico Alfredo Zazo nella sua monografia del 1927 L’istruzione pubblica e privata nel napoletano (1767-1860), a tutt’oggi l’unica opera che affronti in maniera organica la questione dell’insegnamento primario e secondario nel Regno napoletano continentale. Zazo cita uno dei più illustri fra i cosiddetti “padri della patria”, ovvero Luigi Settembrini (1813-1877), il quale, dopo l’unificazione, ebbe a scrivere: “Noi altri Napoletani paghiamo la pena di una nostra bugia: abbiamo gridato per tutto il mondo che i Borboni ci avevano imbarbariti e imbestiati e tutto il mondo ci ha creduto bestie, specialmente il Piemonte, che non aveva tutta la colpa quando ci mandò i sillabari e le grammatiche italiane”.
In verità, la storiografia corrente sembrerebbe dar ragione a quanti ritenevano, e tuttora ritengono, che il Regno delle Due Sicilie fosse abitato da genti semibarbare e ridotte a uno stato poco più che primitivo dai suoi governi, in modo particolare da quello borbonico. A tale proposito, infatti, viene puntualmente tirato in ballo il censimento della popolazione del Regno d’Italia effettuato all’indomani dell’unità, nel 1861, e pubblicato pochi anni dopo, secondo il quale gli abitanti del Mezzogiorno avrebbero presentato una percentuale di analfabetismo pari al 90%. Prego i miei ascoltatori di porgere particolare attenzione al dato che stiamo esaminando. Al momento dell’arrivo di Garibaldi, i “regnicoli” ammontavano a 9.180.000 unità all’incirca (6.950.000 nel Sud “continentale”, 2.230.000 in Sicilia). Il 90% di questa cifra corrisponde a 8.262.000: un numero semplicemente esorbitante! Se il censimento del 1861 fosse da considerare veritiero, risulterebbe che solo 918.000 tra gli abitanti delle ex Due Sicilie erano alfabetizzati.

Trattandosi di affermazioni il cui peso e le cui conseguenze sono di grande rilievo – innanzitutto, ma non solo, sul piano storiografico – si vorrebbe indagare più a fondo per scoprire se i rilievi di cui abbiamo parlato sono effettivamente attendibili.

Noi Neoborbonici, ovviamente, ci siamo posti il problema e, come è nostro costume, abbiamo tentato di verificare il famigerato dato del 90% sulle fonti. Già qui, però, è sorto il primo ostacolo. I documenti più importanti da analizzare, per gli scopi della nostra ricerca, sarebbero le schede che venivano mandate ai Comuni per la compilazione del censimento, e che – una volta riempite – erano rispedite agli organi preposti perché ne elaborassero una sintesi.

Ora, l’istituzione che si occupava dei censimenti della popolazione, a quell’epoca, era la Direzione generale di statistica, a sua volta dipendente dal Ministero di agricoltura, industria e commercio, le cui carte, come quelle prodotte da quasi tutti gli organi centrali dello Stato unitario, si trovano depositate presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma, all’EUR. Ebbene, a precisa domanda di chi vi parla, formulata per iscritto all’Archivio centrale, il sovrintendente di esso, Dott. Agostino Attanasio, ha risposto, il 18 ottobre 2012, confermando quanto il sottoscritto aveva già appreso per altra via: ovvero che fra gli archivi del Ministero di agricoltura, industria e commercio conservati presso l’Archivio centrale di Roma non vi sono serie della Direzione generale di statistica. In altre parole, le carte di quest’ultimo organo dello Stato sono andate perdute, molto probabilmente in maniera irrimediabile. Esse, infatti, non si trovano nemmeno presso l’Archivio storico dell’ISTAT, dove pure chi vi parla aveva ipotizzato che potessero essere andate a finire, per un eventuale “richiamo” di documentazione precedente. Anche in questo caso, riscontro negativo.

Ci sarebbe un’altra via, che pure è stata tentata, per arrivare a una stima del grado di alfabetizzazione delle nostre popolazioni: la consultazione e l’aggregazione dei dati riportati all’interno dei registri dello Stato Civile e dei registri parrocchiali nel periodo considerato, dal momento che in essi viene rilevato se uno o più sottoscrittori degli atti sono analfabeti. Ma si tratta di una strada assai lunga, e per giunta accidentata. Una volta raccolti i dati, occorrerebbe infatti capire, per esempio, quale percentuale significativa rappresentino dell’intera popolazione di un Comune – poniamo, nel 1861 – le persone che hanno sottoscritto proprio in quell’anno un atto di nascita, di matrimonio o di morte. Inoltre non si può essere sicuri che la semplice apposizione della firma sia, di per sé, garanzia del possesso della lingua scritta e parlata da parte del firmatario. C’erano senz’altro – a Sud come a Nord – uomini e donne che sapevano firmare, ma che nello scrivere non andavano oltre la propria firma.

Vano, anzi scorretto, sarebbe anche tentare una sovrapposizione tra i dati – peraltro anch’essi difficilmente quantificabili – della scolarizzazione al momento dell’unità con quelli dell’alfabetizzazione nel medesimo periodo. All’epoca moltissime persone erano in grado di leggere e scrivere, pur non possedendo titoli di studio; tra di esse si annoverano, non di rado, insigni protagonisti della cultura umanistica e scientifica. A titolo esemplificativo citeremo il caso di Giacomo Leopardi, anche se questi morì un po’ prima dell’arco temporale da noi considerato, precisamente nel 1837. Ebbene, il grande Recanatese era, com’egli stesso ironicamente ebbe a dichiarare, “dottorato in nessun facoltà”: non possedeva, cioè, alcun titolo di studio, nemmeno elementare. Dovremmo forse, per questo, rubricarlo tra gli analfabeti?

Un ulteriore motivo di perplessità sorge allorché consideriamo la data cui il primo censimento si riferisce: il 1861, appunto. A quell’epoca era già cominciata la lotta di resistenza antiunitaria comunemente definita “brigantaggio”, la quale determinò certamente enormi disordini, ritardi e inadempienze sul piano amministrativo. Quanto si possono considerare attendibili statistiche effettuate in un’età così remota, nella quale gli strumenti a disposizione dei rilevatori erano tanto più imperfetti di quelli odierni, che pure non di rado risultano fallibili? È davvero possibile, poi, ritenere che quegli strumenti elementari fossero almeno efficaci in una situazione caratterizzata da una continua guerriglia per bande e dalle occupazioni dei comuni meridionali, ora da parte dei “briganti”, ora a opera delle truppe dello Stato italiano?

Come se non bastasse, infine, le testimonianze degli uomini politici contemporanei ai fatti di cui stiamo parlando denotano spesso una certa sfiducia nelle metodologie di censimento all’epoca utilizzate, e a maggior ragione nei risultati da esse raggiunti. A tale proposito faremo menzione di due tra i molti esempi che potremmo addurre, entrambi tratti da una pubblicazione ufficiale postunitaria, ovvero i Rendiconti del Parlamento italiano. Sessione del 1870-71. Seconda edizione ufficiale riveduta. Discussioni della Camera dei Deputati. Volume secondo. Dal 22 marzo al 20 maggio 1871. Nella tornata del 24 marzo 1871, la Camera dei Deputati si trovò a discutere un progetto di legge per ordinare e regolare il secondo censimento generale del Regno d’Italia, dopo quello – appunto – del 1861. Nel corso della discussione prese la parola Ascanio Branca, potentino, ex comandante della Brigata Lucana sotto Garibaldi, assolutamente insospettabile di pur vaghe simpatie “legittimiste”. Ebbene, a un certo punto Branca dice:

Noi abbiamo fatto un censimento nel 1861, quando non tutte le provincie d’Italia erano riunite al regno, come lo sono ora. Si sono fatte le statistiche, si è detto che nelle tali e tali altre provincie ci sono tanti analfabeti, ci sono delle provincie appunto del Mezzogiorno, a cui io appartengo, in alcuna delle quali questa massa di analfabeti si è fatta elevare fino all’89 per cento. Ebbene, occorre verificare se quest’asserzione, che spesso si ripete, e che io credo fallace, sia o pure no esatta.

Poco dopo, nell’ambito della stessa tornata, il deputato friulano Gabriele Luigi Pecile rincara la dose:

Nel censimento del 1861, si è rilevato che gli analfabeti ammontavano a 17 o 18 milioni, il che certo deve essere stato effetto di un equivoco, equivoco che fu anche rilevato dall’onorevole Messedaglia in occasione che [sic] presentò una relazione alla Camera.

Ciò avvenne per essersi calcolato il numero degli analfabeti sottraendo il numero di quelli che sanno leggere dal numero totale della popolazione.

Io non intendo di fare che una semplice raccomandazione, ed è che, nel procedere al nuovo censimento, si abbia cura di mettere nelle schede una colonna, nella quale appariscano chiaramente le persone che sanno leggere e quelle che no, ommessi [sic] i bambini ed i lattanti, i quali in nessun paese del mondo si calcolano fra gli illetterati. È cosa che disonora il nostro paese, il far figurare nelle statistiche un numero eccessivo d’analfabeti che per il fatto non abbiamo.

Terminando questa lunga premessa, desideriamo affermare con tutta sincerità che il nostro intento non è quello di cavillare a ogni costo sui fatti storici per dimostrare questa o quella tesi, ovvero “fare le pulci alla nostra storia nazionale”, come ebbe a dire, a proposito dei Neoborbonici, un commentatore (pseudo) autorevole. Da quanto abbiamo sopra esposto emerge, al contrario, l’opportunità – e, direi, il dovere civico e morale – di studiare con attenzione la storia del Mezzogiorno, senza preconcetti dettati – magari – da atavici quanto ingiustificati complessi di inferiorità.

Ma ormai è ora di ripartire dall’inizio logico e naturale della nostra conversazione, ovvero dall’età “carolina”.

La cura per l’istruzione pubblica primaria e secondaria costituisce un tratto decisivo dell’epoca che va da Ferdinando IV in poi. Carlo di Borbone – una volta divenuto sovrano di un Regno indipendente, dopo i secoli del Vicereame spagnolo e i pochi decenni di quello austriaco – prestò piuttosto attenzione a quella che, con espressione moderna, definiremmo “istruzione tecnica”.

Ricordiamo alcune fra le istituzioni culturali e scolastiche create dal primo re Borbone, che tanta importanza ebbero nel favorire e promuovere quello che gli scrittori coevi definirono “incivilimento” del Regno:

– Le Scuole del Regio Ospedale degli Incurabili di Napoli, dirette dal regio Protomedicato, dotate di sette cattedre: Anatomia e dimostrazioni anatomiche, Medicina pratica, Chirurgia pratica, Ostetricia, Malattie degli occhi e della vescica, Fisica sperimentale, Dimostrazione nella Cattedra di Fisica. Queste scuole costituirono gli antecedenti di una gloriosa istituzione regnicola, il Collegio medico-chirurgico, fondato da Gioacchino Murat nel 1810 e chiuso inopinatamente nel 1871.

– La “Scuola de’ Mutoli”, retta fino al 1798 da un Maestro nel locale del SS. Salvatore, dove aveva sede anche l’Università napoletana.

– La Reale Accademia Ercolanese, fondata da Carlo di Borbone nel 1755 allo scopo di pubblicare e illustrare gli oggetti rinvenuti nel corso degli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano. Venne ripristinata nel 1787, dopo un periodo di inattività, da Ferdinando IV, che ne approvò gli statuti. Esiste ancora oggi.

– La Reale Biblioteca Borbonica, il cui primo nucleo fu costituito da Carlo di Borbone con i fondi librari a lui pervenuti dalla Casa Farnese. La Biblioteca – collocata nel 1782 dentro il palazzo dei “Regi Studii”, l’edificio che attualmente ospita il Museo Nazionale di Napoli – si accrebbe sempre più grazie ai nuovi acquisti di libri promossi dallo Stato napoletano. Fu aperta al pubblico nel 1804.

– L’Accademia del Disegno e del Nudo, istituita nel 1755 e diretta da un Soprintendente e da due Direttori. La frequenza da parte degli alunni veniva sistematicamente motivata attraverso concorsi pubblici e gratificazioni accordate agli studenti meritevoli. In questa scuola gli allievi apprendevano il disegno del nudo, ma venivano precedentemente istruiti nella Scuola del Disegno del Gesso, la quale costituiva la piccola Accademia del Disegno.

– Il Laboratorio delle Pietre dure, il cui organico era formato da un Direttore, due Restauratori delle statue antiche e un Contadore e Fiscale. Questo laboratorio fu eretto nel 1738, dopo che vennero chiamati appositamente a Napoli, da Firenze, dieci professori di Piano e Bassorilievo. Conobbe un notevole sviluppo grazie alle commesse che riceveva dal sovrano, fino a contare ventuno allievi, una parte dei quali annoverava giovani nati nel Regno, l’altra i figli di quei primi professori fiorentini.

– La Stamperia Reale, retta da un Direttore coadiuvato da un Aiutante e da un Fonditore di caratteri, che a sua volta si avvaleva di due Aiutanti, sorse presso il Palazzo reale, essendo inizialmente destinata principalmente alla stampa delle opere di antichità di Ercolano e Pompei.

– La Real Fabbrica della Porcellana – fondata da Carlo di Borbone nel 1737 all’interno del Palazzo reale – passò tre anni dopo nel bosco di Capodimonte. Quando il re partì alla volta della Spagna, nel 1759, volle che essa fosse trasferita nel suo nuovo regno. Ferdinando IV la ristabilì, nel 1772, a Portici; poi la collocò nei pressi del Palazzo reale.

– La Reale Accademia di Artiglieria, creata nel 1744 e affiancata, dieci anni più tardi, da una Scuola d’Ingegneri. Costituì il primo nucleo di quella che sarebbe diventata, nel 1787, la Reale Accademia Militare, ovvero la Nunziatella.

– L’Accademia de’ Guarda-stendardi, nella quale gli allievi erano istruiti sulla navigazione e su quelle parti della matematica che con essa hanno più stretta relazione. L’Accademia sorse nella Darsena di Napoli nel 1735. Qualche decennio più tardi, nel 1779, essendo ministro segretario di Stato di Guerra e Marina il celebre John Acton, questa scuola venne interamente riordinata. Da essa nacque la Reale Accademia di Marina.

Come avevamo accennato poco fa, l’interesse del Governo napoletano per l’assunzione della responsabilità relativa all’istruzione pubblica, primaria e secondaria, dei cittadini si delinea con chiarezza solo dopo l’età carolina, inserendosi nell’alveo del pensiero “giurisdizionalista”, volto a rivendicare le prerogative dello Stato rispetto a quelle della Chiesa.

Con un dispaccio indirizzato al principe di Campofiorito don Stefano Reggio, capitano generale dell’esercito e colonnello delle Guardie italiane, Ferdinando IV di Borbone ordinò che fosse attuato il provvedimento del 31 ottobre 1767 per mezzo del quale la Compagnia di Gesù veniva espulsa dal Regno di Napoli. Nella notte del successivo 20 novembre, in effetti, si eseguirono minuziosamente le istruzioni per lo sfratto e il sequestro delle proprietà dell’Ordine. Due giorni dopo “i reali trombetti”, percorrendo le strade di Napoli, resero nota la prammatica regia con cui i beni degli espulsi erano incamerati e devoluti a opere di pietà e di utile pubblico e all’istituzione e riordinamento dei collegi. Tale prammatica – commenta Alfredo Zazo – “segna una pagina notevole nella storia della scuola del mezzogiorno d’Italia e l’affermazione in essa contenuta del diritto e del dovere dello Stato di provvedere all’istruzione dei cittadini, non verrà più meno anche quando le vicende politiche ne offuscheranno o ne indeboliranno il valore”.

L’intento governativo – ispirato ai dettami del riformismo illuminista e vigorosamente incoraggiato da Bernardo Tanucci, allora segretario di Stato di Casa reale – era quello di creare una nuova scuola, regia e pubblica, sulla falsariga – peraltro – del precedente sistema scolastico; si trattava, insomma, di fondare istituzioni educative “le più simili alle scuole, che facevano li Gesuiti, riguardo al sistema, e migliori riguardo al metodo”, come leggiamo in una nota di segreteria del dicembre 1767. Il posteriore impegno legislativo conferma, anche a un esame superficiale, l’impegno e la determinazione dell’autorità sovrana nel realizzare questo progetto, difendendo le proprie prerogative in materia di istruzione. I Padri Gesuiti scacciati dal Regno vi lasciarono, con le relative cospicue rendite annesse, ventinove floridissimi collegi, “tutelati fino a quell’anno nel loro decoro e nell’esterna disciplina da rigorose disposizioni di legge”: in Napoli il Collegio Massimo – destinato a ospitare, a partire dal 1777, l’Università degli Studi – e i collegi di Sant’Ignazio, di S. Francesco Saverio, dei Nobili e di San Giuseppe a Chiaia; in Campania i collegi di Capua, Castellammare di Stabia, Massalubrense, Nola; nei Principati quelli di Benevento e di Salerno; negli Abruzzi e nelle Puglie quelli di Aquila, Atri, Chieti, Sulmona, Bari, Barletta, Brindisi, Lecce, Molfetta, Monopoli, Taranto; nelle Calabrie, infine, quelli di Amantea, Catanzaro, Cosenza, Monteleone, Paola, Reggio, Tropea.

Di lì a poco l’insigne giurista Giacinto Dragonetti, che era stato chiamato a presiedere l’Archiginnasio del Salvatore, elaborò un piano – reso pubblico da Ferdinando IV con dispaccio emesso da Caserta il 12 marzo del 1768 – per il riordinamento scolastico in tutte le province del Regno. Vi erano previste scuole per l’istruzione primaria “di leggere scrivere ed abbaco”, e scuole secondarie – i veri e propri “collegi” – che assumevano il titolo di “regie”, afferma lo storico Donato Cosimato, “in virtù appunto del governo regio sia nella organizzazione sia nell’amministrazione di esse”.

Il 26 novembre del 1768 il re approvò inoltre l’apertura di ventuno scuole “minori” – cioè “scuole secondarie con cattedre di leggere, scrivere e abbaco, di lingua latina e qualche volta di greco o matematica” – e di collegi-convitti in ogni città in cui risiedeva la Regia Udienza, ovvero Aquila, Bari, Capua, Catanzaro, Chieti, Cosenza, Lecce, Matera, Salerno. Dall’aprile al luglio del 1769 il provvedimento fu reso esecutivo. Le scuole minori sorsero all’inizio in Paola e in Amantea; subito dopo analoghe istituzioni videro la luce in Acerno, Atri, Barletta, Benevento, Brindisi, Campobasso, Castellammare di Stabia, Latrònico, Massa, Modugno, Molfetta, Monopoli, Monteleone, Nola, Reggio, Sora, Sulmona, Taranto e Tropea.

Il sistema d’istruzione in tal modo delineato non mutò sostanzialmente la propria struttura nel successivo quindicennio, fino – quindi – alla metà degli anni Ottanta del ’700. L’unica novità consistette nella maggiore affluenza conosciuta in quel periodo dalle scuole degli ordini religiosi, logica conseguenza, peraltro, dell’espulsione dei membri della Compagnia di Gesù. In particolare i collegi provinciali degli Scolopi godettero di una fioritura inusitata nelle Puglie, in Terra di Lavoro, in Abruzzo e nella stessa Napoli, dove quei padri diressero i collegi Ferdinandiano, di S. Carlo alle Mortelle, di S. Maria di Caravaggio e della Duchesca. Dal canto loro i Somaschi governarono il Collegio dei Nobili e quello Macedonio, sempre nella capitale, mentre anche i Liguorini – ovvero i Redentoristi di Sant’Alfonso de’ Liguori – aprirono con successo scuole in Nocera, Terra di Corani, Caposce e Iliceto. A questo quadro complessivo si deve aggiungere la rete, certamente molto vasta e di grande richiamo, costituita dalle “scuole private dei primi rudimenti”, gestite quasi sempre da preti e disseminate in tutto il Regno, delle quali è praticamente impossibile calcolare il numero, anche perché i titolari tendevano a svolgere la loro opera sottraendosi al controllo, sempre più pressante e vigile, dell’autorità governativa, vale a dire evitando di chiedere allo Stato il prescritto permesso di esercitare la professione d’insegnante.

Il secondo momento di svolta nella storia dell’istruzione pubblica nel Regno di Napoli si colloca nel corso dell’ottavo decennio del secolo XVIII, con l’introduzione del cosiddetto “metodo normale”. Quest’ultima espressione, derivante dal latino norma, ovvero “regola”, “unità di misura”, è da attribuirsi a Johann Julius Hecker, teologo e pedagogista pietista noto come organizzatore del Paedagogium di Halle, e fondatore della Realschule economico-matematica di Berlino. Accanto alla Realschule Hecker creò una scuola normale per la formazione degli insegnanti, destinata a ottenere rapida e chiara fama. Il suo esempio fu seguito da Johannes Ignaz von Felbiger, canonico agostiniano, nonché abate dell’abbazia di Sagan nella Slesia; quest’ultimo titolo gli conferiva anche l’autorità sulle scuole cattoliche situate nel territorio di giurisdizione della suddetta abbazia. Nel 1765 Felbiger ricevette da Federico II di Prussia l’incarico di riformare tutte le istituzioni scolastiche cattoliche della Slesia, recentemente strappata all’Austria; da autentico “despota illuminato” Federico aveva infatti colto con prontezza la preziosa opportunità che il nuovo metodo, con il suo carattere “uniforme”, offriva per esercitare un controllo governativo sulla scuola pressoché assoluto, impossibile da attuare in una situazione di grande pluralità di iniziative e di strutture.

L’abate Felbiger era un entusiasta del procedimento cosiddetto “letterale e tabellare”, e lo applicò sostituendo l’insegnamento individuale con quello simultaneo, per classi, trasformandolo così nel vero e proprio “sistema normale”. Il metodo, da allora in poi, conobbe un’enorme diffusione in tutta Europa, e finì con l’essere adottato anche nelle scuole per l’istruzione dei soldati. Fu proprio nel Collegio militare di Neustadt (ovvero l’Accademia Militare Teresiana) che il conte Gentile, inviato da Ferdinando IV a osservare le tattiche militari austriache, ebbe notizia della rivoluzionaria metodologia d’insegnamento; essendone rimasto entusiasta, non mancò, una volta tornato a Napoli, di farla conoscere a corte.

In conseguenza di ciò, il 21 agosto del 1784 Ferdinando IV dispose l’invio a Rovereto dei monaci celestini Alessandro Gentile, fratello del proponente, e Ludovico Vuoli, perché apprendessero il nuovo metodo in vista di una sua introduzione nel Regno. Il dispaccio del 21 agosto del 1784 costituisce una delle più limpide e felici espressioni del Ferdinando IV “illuminista”. Vale la pena, pertanto, di riportarne un estratto:

Considerando il Re lo stretto, ed intrinseco rapporto, che la qualità de’ costumi, e dell’educazione de’ Popoli ha colla felicità de’ medesimi; persuaso, che il pubblico costume sia in ragione specialmente della maggiore, o minore estensione, e della più, o meno facile comunicazione de’ lumi, che circolano nella Nazione e ne stabiliscono l’opinioni, e le massime; ed intento a migliorare anche su questo importante oggetto la condizione de’ suoi amatissimi sudditi in quella guisa, che vi si sono utilmente applicati ne’ loro Domini quasi tutti i Sovrani, e Principi dell’Europa, ha meditato di stabilire sull’esempio di questi anche ne’ suoi felicissimi Regni le Scuole normali, rendutesi omai comuni altrove, per istruzione della Gioventù di ogni ceto nelle lettere umane di prima necessità. In vista di questa sua Real benefica determinazione ha sovranamente disposto, che il P. Religioso Celestino D. Alessandro Gentile, il quale si è offerto di servire per la sua parte alla realizzazione di questi magnanimi disegni, e di cui S. M. conosce i talenti, e non ignora anche la distinta nascita, passi per un’anno [sic] con un altro Compagno del suo ordine a sua scelta in Roveredo, per prendervi positiva, ed esatta idea di quella scuola di questo genere, che vi si trova stabilita, e ricondursi successivamente in questa Capitale.

Subito dopo, infatti, vennero aperti numerosi istituti, secondo due tipologie fondamentali: le scuole dette Normali Capitali, destinate alla formazione dei maestri, e quelle soprannominate Normali urbane e Normali rurali, dette anche Scuole Normali per la pubblica educazione. Particolare prestigio raggiunse la Scuola Capitale di San Pietro a Maiella, aperta in Napoli nel 1789 e subito molto frequentata – sino all’affollamento – anche per gli arricchimenti che il metodo normale andava ricevendo dalla profondità e dalla ricchezza della cultura regnicola del secolo.

A riprova di ciò, nel 1875 Giuseppe Carignani espose in un brevissimo saggio alcuni risultati delle ricerche da lui compiute studiando il contenuto di undici volumi conservati presso l’Archivio comunale di Napoli – purtroppo andati, a quanto pare, dispersi – che riguardavano esclusivamente la materia dell’istruzione normale. Secondo l’autore, l’anno 1789 “fu per le scuole di Napoli il tempo del loro maggior splendore e può dirsi che fosse la sola occupazione della Corte e de’ ministri”. Nell’aprile di quell’anno si prescrisse l’obbligo per ogni monastero, convento, casa religiosa di qualunque ordine di aprire scuole maschili e femminili, o in alternativa di versare il dieci per cento delle proprie rendite all’Azienda di Educazione. Fu quasi un segnale di riscossa: il mese seguente vennero aperte le scuole nella contrada Avvocata dagli Scolopi a Caravaggio, dagli Antoniani a Tarsia, da’ Domenicani in San Domenico Soriano; e poi man mano a San Carlo all’Arena, a San Giovanni a Carbonara dagli Agostiniani, in Santa Maria della Mercede da’ PP. Trinitari e a Monte Santo. Nel luglio poi di questo stesso anno aderivano alle proposte del Governo molti ordini religiosi; e i Domenicani cominciarono a stabilire scuole in San Pietro Martire, in San Severo ai Mannesi, a Santa Caterina a Formello, a Gesù e Maria, a San Tommaso d’Aquino, in Santa Maria della Libera sul Vomero e al Rosario di Palazzo.

Contemporaneamente una convenzione stipulata fra la Delegazione delle scuole normali e i monaci di Santa Maria in Portico portava all’apertura degli istituti d’istruzione normale nel borgo di Chiaia, mentre i Francescani – che già mantenevano una scuola nel convento dell’Ospedaletto – si assunsero l’onere di fondarne di nuove in San Severo ai Vergini, a Sant’Efrem, nel bosco di Capodimonte, a Sant’Anna a Capuana e in Santa Maria della Salute. Durante quel cruciale 1789, su richiesta dei cittadini, vennero create altre scuole nella parrocchia di Santa Maria in Cosmedin, in Santa Maria della Rotonda e in Sant’Anna di Palazzo, e altre ancora, femminili, in via San Mandato e a Sant’Efrem, per tacere di quelle serali, destinate agli operai della zona “tra Fontana Medina e la strada di Porto”, e inaugurate dal parroco dell’Incoronatella, Carlo Penna, definito dal Carignani “di quegli uomini che nel cammino della civiltà segnano gli stadi del suo corso”.

Non si deve peraltro ritenere che il rinnovamento della pubblica istruzione abbia tagliato fuori la Sicilia, dove anzi esso ebbe un propugnatore instancabile in Giovanni Agostino De Cosmi. Questi, dopo aver frequentato con altri quaranta religiosi isolani il corso sul nuovo sistema educativo tenuto a Napoli, nel 1788, da Gentile e Vuoli, forte dell’appoggio del Caracciolo – primo Segretario di Stato di Ferdinando IV – e del viceré Caramanico, agì con indipendenza fino a scontrarsi con gli stessi istruttori per rivendicare l’autonomia scolastica della Sicilia, operando alcune significative riforme all’interno del metodo normale. Il suo esperimento riscosse il vivo consenso di molti comuni e di non pochi benefattori, disposti a fornire i mezzi per la fondazione delle scuole. Alla munificenza di privati cittadini fu dovuta, infatti, l’apertura delle scuole di Augusta e Randazzo; l’abate Santacolomba creò a sue spese un centro d’istruzione nel seminario di S. Lucia del Mela; due scuole vennero attivate dentro il Palazzo reale di Palermo grazie a un finanziamento del Caramanico e altre cinque videro la luce a carico delle rendite della Real Magione in Prizzi, Palazzo Adriano, Chiusa Sclafani, Giuliana e Palermo. I municipi, dal canto loro, si adoperarono con impegno nell’istituire scuole normali, in una nobile gara che coinvolse tanto piccoli comuni – come, fra gli altri, Aci S. Antonio, Gagliano, Tortorici, Viagrande – quanto grossi centri urbani delle dimensioni di Caltagirone, Caltanissetta, Marsala, Noto, Termini.

Negli ultimi anni del Settecento l’incalzare di drammatici eventi internazionali distolse l’azione governativa dalla cura dell’apparato scolastico, che infatti conobbe, alla vigilia del 1799, una drammatica decadenza. La Repubblica napoletana, dal canto suo, non ebbe modo di recare contributi tangibili alla scuola e ai problemi scolastici; né, d’altra parte, sarebbe potuto essere altrimenti, considerato che ebbe vita brevissima e tumultuosa. Le poche disposizioni del semestre in materia di pubblica istruzione, rileva Zazo, “rimasero manifestazioni formali di un riordinamento che ricalcava con fedeltà ed ampiezza più o meno grandi i progetti di Talleyrand, del Lauthenas, del Lepelletier, del Lakanal e l’opera di ricostruzione compiuta dalla Convenzione nel campo della scuola”. Più che alle realizzazioni pratiche del Governo provvisorio, pertanto, è opportuno guardare alle enunciazioni di principio sostenute dagli intellettuali e dagli uomini politici filorepubblicani durante quel convulso periodo.

Nel Proclama del 24 febbraio 1799 redatto dal ministro dell’Interno Francesco Conforti – già “Deputato per li Catechismi” per conto della borbonica Delegazione delle Scuole Normali, e Nautiche – l’educazione della gioventù veniva fondata sulle medesime basi ideologiche sopra le quali Gaetano Filangieri aveva fatto poggiare l’educazione pubblica nel quarto libro della sua Scienza della legislazione; perfino il lessico e le espressioni usate dai due autori nel trattare lo stesso oggetto mostrano concordanze impressionanti. “In una Repubblica” scrive Conforti “i giovanetti non appartengono solamente alle loro famiglie, ma benanche alla Patria, giacché domani essi saranno cittadini, e Magistrati, e dalla loro buona o cattiva educazione dipende la felicità, o la infelicità del popolo, del quali essi formano una parte”. Il ministro dell’Interno, dunque, proponeva la conservazione di “tutte le case di educazione presentemente esistenti”, sempre che, tuttavia, si esercitasse in esse il più vigile controllo sull’ortodossia rivoluzionaria:

[le scuole] siano poste sotto l’ispezione particolare de’ funzionarj pubblici, ed in particolare degli Amministratori di dipartimento, e delle Municipalità. È molto importante d’invigilare, che si allevino i ragazzi, speranza della Repubblica, ne’ principj della Libertà, e dell’Eguaglianza, nell’amore de’ loro simili, e della Patria. […] Che i loro Maestri facciano rilevare il contrasto del distrutto regime, dove bisognava essere schiavo, ed avvilirsi per ottenere il tristo privilegio di opprimere il popolo, col Governo Repubblicano, dove tutti gl’impieghi saranno il premio delle virtù, de’ talenti, del patriottismo, e procureranno la dolce soddisfazione di beneficare, e di concorrere alla felicità degli uomini.

Non diversamente il Progetto di Costituzione della Repubblica Napoletana di Mario Pagano delineava al titolo X, Della educazione ed istruzione pubblica (articoli 292-318), un ideale pedagogico il cui carattere di “pubblicità” si identificava in modo essenziale e irrinunciabile con l’indottrinamento nelle virtù repubblicane sotto l’assidua sorveglianza dello Stato:

293. L’educazione fisica, morale, ed intellettuale privata, che debbono i padri di famiglia dare a’ loro figliuoli fino all’età di sette anni, è prescritta dalla legge.

294. L’educazione pubblica comincerà alla età di sette anni compiti.

[…]

298. In giorno festivo i giovanetti maggiori di 7 anni intervengono ne’ luoghi dalla legge stabiliti a sentire la spiega del catechismo repubblicano.

Essi si conformeranno a tutte le pratiche morali che la legge stabilisce.

299. Vi sono de’ teatri repubblicani, in cui le rappresentazioni son dirette a promuovere lo spirito della libertà.

300. Vi sono ancora stabilite le feste nazionali, per eccitare le virtù repubblicane.

301. Vi sono delle scuole primarie, nelle quali i giovanetti apprendono a leggere, a scrivere, gli elementi dell’aritmetica, ed il catechismo repubblicano.

[…]

303. In diverse parti della Repubblica vi sono delle scuole superiori alle scuole primarie, il cui numero sarà sì fattamente regolato che ve ne sia almeno una per ogni dipartimento.

304. Per tutta la Repubblica vi è un istituto nazionale incaricato di raccogliere le nuove scoverte, e di perfezionare le arti e le scienze, e di sopravvigilare e dirigere tutte le scuole.

Le insormontabili difficoltà dovute al travagliatissimo momento politico impedirono qualsiasi tentativo volto a mettere in pratica gli ideali educativi propugnati dai legislatori rivoluzionari.

Le drammatiche condizioni in cui venne a trovarsi il ramo della “pubblica uniforme educazione” subito dopo la tragica fine dell’esperienza rivoluzionaria sono attestate e descritte in uno “Stato del Fondo Normale” anonimo e senza data – ma risalente con ogni probabilità all’anno 1800 – conservato nell’archivio della Segreteria e Ministero di Stato dell’Ecclesiastico. Il relatore vi traccia un brevissimo profilo storico dell’istruzione normale, ricordando che molte tra le scuole aperte fra grandi speranze ed entusiasmi a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta del Settecento erano decadute poco tempo dopo “per diversi motivi, e particolarmente per non aver avuto da principio fondi convenienti, e per non essersi giammai fissato un regolamento capace per la scelta de’ soggetti, e a contenerli nel loro dovere”. Pochi istituti rimanevano al presente in vita, e questi pochi grazie all’espressa volontà di Ferdinando IV, il quale “assicurato dalla propria oculare ispezione dell’efficacia, ed eccellenza del metodo”, non aveva permesso, due anni prima, che esso venisse abolito, “come il Delegato Caporuota Peccheneda avea proposto, cedendo alle vociferazioni del Ceto Monastico, de’ Maestri privati, e de’ Loro seguaci”. Le scuole normali ancora esistenti si erano quindi ridotte a tre nella capitale: due di esse – quelle della Trinità degli Spagnoli e di Santa Maria dell’Incoronatella, nella chiesa di Visitapoveri – erano maschili; la terza, sita nella “Parocchia di Fonseca”, era una “Scuola di Ragazze”. In provincia l’istruzione normale continuava a essere impartita a Marsicovetere, Corato, Luzzi, L’Aquila e Roccaraso, mentre nella Diocesi di Castro una “Università di Studj” dipendeva dalla Delegazione che era stata presieduta da Francesco Peccheneda fino alla sua morte, avvenuta nel 1798 e che in seguito, a titolo provvisorio, fu diretta dall’avvocato fiscale Azzariti, sino al luglio del 1801. A Piano di Sorrento, infine, la Scuola di Nautica continuava a vivere una vita tutto sommato florida.

Gli immensi problemi economici e politici apertisi dopo la parentesi repubblicana, l’urgenza di altre angosciose priorità, più impellenti della riorganizzazione dell’istruzione pubblica, le dolorose conseguenze della repressione seguita alla fine della Repubblica – basti pensare all’esilio di Vuoli e alla condanna a morte eseguita contro Francesco Conforti e Marcello Scotti – contribuirono a frenare l’opera di ricostruzione del sistema scolastico del Regno di Napoli, in particolare di quello normale. Tuttavia, sia pure in maniera lenta e faticosa, nel corso della prima restaurazione si cominciò a risalire la china. Un “Elenco di tutti gl’Individui addetti alle Scuole di Pubblica Educazione colla loro antichità, e soldi, che godono, inclusi quelli, che si trovano impiegati nella Delegazione”, risalente al 1805, testimonia, infatti, qualche progresso compiuto in tal senso, e offre nel contempo un’interessante fotografia delle condizioni in cui versava l’istruzione normale nel Mezzogiorno poco tempo prima dell’arrivo di Giuseppe Bonaparte.

Nel febbraio del 1806 l’esercito francese invase la parte continentale del Regno di Napoli. Il mese successivo Napoleone Bonaparte dichiarò l’annessione all’impero francese dello Stato meridionale, nominandovi quale sovrano suo fratello Giuseppe; in seguito questi, richiamato dall’imperatore a Bayonne, venne qui da lui proclamato re di Spagna e delle Indie, mentre la corona di Napoli passò, nel luglio del 1808, a Gioacchino Murat – marito di una sorella di Napoleone, Carolina Annunziata Bonaparte – che conservò il trono sino al maggio del 1815. La vasta opera di riorganizzazione e di riforma della vita amministrativa del Reame di Napoli avviata durante il cosiddetto “Decennio francese” conobbe un primo momento significativo allorché Giuseppe Napoleone, in nome dell’imperatore suo fratello, emanò in data 31 marzo 1806 una Determinazione con la quale fu istituito il Ministero dell’Interno e se ne fissarono le attribuzioni; tra queste, a norma dell’articolo 10, si sarebbero dovuti annoverare: “L’istruzione, le scuole pubbliche ed Università degli Studi, i Musei, le Biblioteche pubbliche, che non fanno parte delle case e dominii reali, le Società Letterarie, i depositi letterarii, i premii e le ricompense per le scoverte, ed i soccorsi ai letterati”. Era così sancito definitivamente il principio dell’intervento e del controllo statale sulla pubblica istruzione, già affacciatosi al tempo dell’espulsione dei Gesuiti e della fondazione delle scuole normali.

Il 15 agosto del 1806 Giuseppe Napoleone, ufficialmente insignito del titolo di “Re di Napoli e di Sicilia”, pubblicò un decreto in virtù del quale “tutte le città, terre, ville ed ogni altro luogo abitato” del Regno sarebbero stati obbligati a mantenere un maestro “per insegnare i primi rudimenti, e la dottrina cristiana a’ fanciulli” ed una maestra “per fare apprendere, insieme colle necessarie arti donnesche, il leggere, scrivere e la numerica alle fanciulle”. Il provvedimento disponeva inoltre che nei luoghi con una popolazione minore di 3000 residenti si sarebbe potuto permettere agli insegnanti “di serbare il metodo ordinario antico”, mentre in quelli con un numero maggiore di abitanti i docenti avrebbero dovuto applicare il metodo normale. Fra lo scorcio del 1806 e gli inizi del 1807 nella capitale vennero inaugurate le prime scuole primarie maschili con settecento alunni che nel settembre del 1808, scrive Zazo, “raggiunsero il numero di millecinquecento sessanta nei ventiquattro conventi aperti in Napoli in seguito ai decreti del 9 febbraio, 14 luglio e 16 ottobre 1807, con cinquantuno maestri religiosi e ventiquattro prefetti, destinati pure a supplire i maestri assenti”. Analogamente nelle province si assisté a una generale ripresa dell’istruzione primaria: nei primi mesi del 1808, infatti, ben millecinquecento comuni avevano già eseguito il decreto del 15 agosto 1806.

Lo stesso Zazo dà poi conto degli sforzi attuati in questo periodo per apportare alcuni miglioramenti al metodo normale e, in generale, a tutto il sistema dell’insegnamento elementare. A tal scopo, nel giugno del 1807 fu creata una Commissione – poi rinnovata nel 1809 – per vigilare sulla compilazione dei libri di testo, a norma del decreto dato in Napoli il 24 febbraio 1807 da Giuseppe Napoleone, che stabiliva perentoriamente quanto segue:

ART. 1. Non potrà stamparsi, introdursi, né pubblicarsi nel Regno alcun libro senza il permesso del Ministro della Polizia.

2. Non potrà farsi uso per l’insegnamento pubblico di verun libro, che non sia approvato dal Ministro dello Interno.

3. Non potrà servire all’uso de’ Seminarii, e delle chiese alcun libro che non sia approvato dal Ministro del Culto.

Durante il successivo governo di Gioacchino Murat l’istruzione fu oggetto di una profonda e qualificata riflessione da parte delle migliori energie riformatrici del Regno di Napoli (un nome per tutti: quello di Vincenzo Cuoco), sicché la nuova restaurazione borbonica conservò, anche in questo particolare ramo di amministrazione, una sostanziale continuità di metodi rispetto al Decennio.

Durante la cosiddetta “seconda restaurazione”, infatti, il Governo, riprendendo le riforme murattiane, abolì la Direzione d’istruzione pubblica, istituendo il 2 agosto 1815 una Commissione d’istruzione pubblica sempre alle dipendenze del Ministero dell’interno, la quale Commissione ereditò le funzioni dell’abolita Direzione, con compiti di vigilanza scientifica e disciplinare sugli stabilimenti di istruzione. Tale Commissione si componeva di nove membri, successivamente ridotti a sette. Nel 1816 furono inoltre approvati, con decreto del 14 febbraio, gli Statuti per i Reali Licei del Regno di Napoli, per i Collegi e per le scuole secondarie (il cosiddetto “Codice della pubblica istruzione”).

Nel 1821, la nuova Giunta di scrutinio per la pubblica istruzione, istituita con decreto del 12 aprile, fu incaricata di formulare un uniforme metodo di insegnamento per tutte le scuole: pubbliche e private.

Con altro decreto del 12 settembre 1822, abolita la Giunta di scrutinio, fu istituita una nuova Giunta di pubblica istruzione, sempre alle dipendenze del Ministero dell’Interno. La Giunta, con a capo il presidente dell’Università degli Studi, era composta da sei professori di nomina regia e aveva soprattutto compiti di vigilanza e facoltà di proporre soluzioni affinché tutte le leggi e i regolamenti in materia di pubblica istruzione venissero rispettati.

Più di due decenni più tardi, sotto Ferdinando II, il 6 marzo 1848 fu istituito il Dipartimento (non ancora “Ministero”) della pubblica istruzione; con decreto del 16 aprile dello stesso anno ne venne approvato il piano organico. Nello stesso 1848, fu nominata, il 22 marzo, una Commissione provvisoria, della quale fece parte Francesco De Sanctis, con il compito di elaborare un progetto di riforma dell’insegnamento secondario, che, datato 7 marzo 1849, non diventò mai esecutivo.

Con il decreto istitutivo del 6 marzo 1848 Ferdinando II intese rinnovare l’intero assetto governativo nominando i nuovi ministri segretari di Stato; affidò quindi il Dipartimento di pubblica istruzione prima a Carlo Poerio e subito dopo a Paolo Emilio Imbriani. Il vero e proprio Ministero fu dunque provvisto di un piano organico approvato con decreto del 16 aprile 1848 e venne articolato in tre ripartimenti, a loro volta suddivisi in primo e secondo “carico”. Il primo ripartimento curava gli affari di “Segretariato Contabilità Archivio”, con compiti relativi alla tenuta dei registri della corrispondenza, allo smistamento delle pratiche presso i vari uffici, alla spedizione dei decreti, al personale del Ministero e alla disciplina, agli affari riservati, alla corrispondenza particolare con il ministro, alla tenuta dell’archivio, alla redazione dello stato discusso e alla cura di tutta la contabilità del Ministero; il secondo ripartimento si occupava in maniera specifica della pubblica istruzione curando gli affari relativi alle istituzioni d’istruzione superiore quali ad esempio l’Università degli studi di Napoli, i Gabinetti scientifici, l’Orto botanico e gli affari relativi a licei, collegi, scuole primarie e secondarie; aveva anche competenza sulle società letterarie e sulle accademie, sulla Biblioteca Brancacciana e su quella del Ministero medesimo. Il terzo ripartimento, infine, curava gli affari relativi ai “Musei Antichità e Belle Arti”, con competenze sulle Reali accademie di archeologia, di scienze e di belle arti, sulla Società, sulla Biblioteca e sul Real Museo Borbonico, sulle Soprintendenze per i papiri ercolanesi e per gli scavi di Pompei e Ercolano, sull’Istituto di belle arti, sul Laboratorio delle pietre dure, sul Collegio di musica, sui teatri e sulle scuole di canto e di scenografia. Dipendevano inoltre dal Ministero della pubblica istruzione le scuole tecniche e i seminari, per la regolamentazione e la vigilanza sulla parte scientifica e didattica, e infine tutti gli archivi del Regno, “considerati come stabilimenti letterari”.

L’autonomia del nuovo Ministero durò poco: esso, infatti, fu soppresso con decreto del 17 novembre 1849. La pubblica istruzione venne quindi riunita al Ministero degli affari ecclesiastici, costituendone il secondo ramo, articolato in due ripartimenti. In base al piano organico del Ministero degli affari ecclesiastici approvato con decreto dell’8 agosto 1859, il primo ripartimento della pubblica istruzione ebbe competenza su “archivi, biblioteche, accademie, istituti di belle arti e teatri”; il secondo ripartimento si occupava in maniera specifica della pubblica istruzione. Con decreto emesso da Giuseppe Garibaldi il 12 settembre 1860 fu istituito nuovamente il Ministero della pubblica istruzione, che si vide riassegnare le competenze stabilite dal decreto del 1848, tra cui anche quelle sugli scavi di Pompei e Ercolano, passate fin dal 1852 alla Soprintendenza generale della Real Casa Borbonica.

Torniamo un decennio indietro, per ricordare brevemente un’altra istituzione che svolse un ruolo non marginale nell’ambito della storia della scuola e della cultura del Regno napoletano. Con decreto del 28 giugno 1849 Ferdinando II istituì, alle dipendenze del Ministero della pubblica istruzione, il Consiglio generale di pubblica istruzione. Ne facciamo cenno, qui, non per un puro e semplice gusto di “erudizione” o, peggio ancora, di ostentazione di conoscenza storica, ma perché il suo archivio rappresenta una fonte documentaria preziosa. Il fondo archivistico del Consiglio generale di pubblica istruzione, infatti, contiene carte di grande interesse, complementari e, in qualche caso, addirittura sostitutive rispetto alla documentazione prodotta dagli altri enti dello Stato borbonico che, a vario titolo, si occupavano di istruzione.

Formato da un presidente e da un segretario, “scelti fra i personaggi più reputati per dignità e per lettere”, e da sette membri, eletti in parte fra i più quotati professori universitari e in parte fra i soci della Società Reale Borbonica, il Consiglio ebbe competenza su tutti i settori dell’istruzione, ereditando comunque anche le funzioni di vigilanza degli organi che lo precedettero. Il Consiglio generale di pubblica istruzione, abolito con decreto del 20 agosto 1860, fu sostituito prima da una Commissione provvisoria di pubblica istruzione e successivamente dal Consiglio superiore di pubblica istruzione, istituito con decreto luogotenenziale del 16 febbraio 1861. Suo precipuo compito fu quello di governare “l’insegnamento pubblico in tutti i rami”, con funzioni di promozione dell’insegnamento statale e di vigilanza su quello privato, “a tutela della morale, della igiene e delle istituzioni dello Stato, e dell’ordine pubblico”.

Ma siamo arrivati già in pieno periodo postunitario; e questa, nel bene e nel male, è un’altra storia.

 

 

 

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