Nicola Zitara



ABBIAMO TRADITO I NOSTRI FIGLI
Non c’è famiglia che  non lavori per assicurare un avvenire ai figli.  Bisogna però chiarire  che, nella millenaria storia dell’uomo e dei popoli, la qualità del lavoro cambia. In una società molto primitiva, allorché l’uomo non conosce né  l’agricoltura né l’allevamento, gli adulti si muovono sulla superficie terrestre in cerca di un luogo in cui i frutti spontanei e i piccoli animali da cacciare siano abbondanti, o meno scarsi. Solo così possono assicurare il cibo ai loro figli. In una fase parecchio successiva, quando gli uomini hanno scoperto l’agricoltura e l’allevamento, e gli esseri umani non sono più  nomadi che viaggiano verso luoghi ignoti, la terra disponibile, che prima appariva illimitata, diviene limitata.
Il passaggio dalla disponibilità illimitata di terra alla indisponibilità delle terre si può vedere nei film western. Quando si forma la proprietà privata, i padri e le madri più fortunati lasciano al figlio un fondo in cui questi lavorerà duramente, e tuttavia conserverà la sua libertà. Infatti, al tempo di Omero, chi non ha un suo pezzo di terra vive da servo o fa il mendicante. Nei secoli successivi, le classi sociali si fanno più articolate. Oltre ai proprietari di terra o di animali, ci sono gli artigiani indipendenti e i lavoratori dipendenti, i cosiddetti proletari, coloro che non hanno niente, tranne la capacità di lavorare per gli altri e che, per questo, ricevono un salario.
Trascorrono ancora parecchi secoli e accanto ai salariati, in Grecia e a Roma, si forma la classe degli impiegati. Dopo averli vinti e ridotti in schiavitù, i romani usano molto spesso e con gran profitto i magnogreci più istruiti come impiegati: contabili, amministratori, medici, giuristi, insegnanti dei figli. Sotto l’Impero romano nasce anche la più vasta forma di impiego pubblico dei tempi passati, quella del soldato. La classe degli impiegati statali di tipo fiscale e amministrativo cresce incredibilmente con la nascita e lo sviluppo dello Stato moderno.       
La premessa serve a chiarire che l’analisi delle prospettive di lavoro dei giovani del Sud è un fatto della storia ed è connessa con l’involuzione dell’assetto produttivo meridionale a partire dal 1860, il disastroso anno in cui il Paese meridionale fu conquistato dai Padani, più che con le armi, con la truffa della fondazione di una libera nazione italiana e di un’Italia una e indivisibile. A quel tempo la percentuale maggiore della popolazione era fatta di contadini; venivano subito dopo gli artigiani, gli operai, i marinai, gli scaricatori, i facchini, i soldati. Nell’insieme, poco meno del 90 per cento della popolazione. Nel rimanente 10 per cento c’erano i padroni di terre, di fabbriche, di vascelli, di case commerciali e bancarie, i professionisti, i giudici, gli impiegati, compresi gli ufficiali, i preti, i monaci e le monache.         
Oggi questo quadro è fortemente cambiato. La classe dei contadini è praticamente  scomparsa. La classe dei padroni di terre si è enormemente dilatata, ma le attività agricole non sono più remunerative. Chi possiede un podere, persino un grosso podere, cerca sul mercato un’altra attività produttiva di reddito, di regola un impiego pubblico o una professione, assegnando alla terra la funzione d’integrare il reddito principale. 
Sono scomparse quasi tutte le altre figure padronali, tranne i padroni di case. Anche la classe dei commercianti, che sembra sopravvivere come classe per sé,  opera in condizione di libertà limitata, nell’ambito della distribuzione padana. Molto simile l’evoluzione dei professionisti. Come gli insegnanti, un tempo collegati essenzialmente  con le parrocchie e i vescovadi, in appresso inquadrati dallo Stato, anche medici rappresentano, oggi, una figura di lavoro dipendente e impiegatizio. Apparentemente liberi come professionisti, ma in realtà dipendenti o collegati alla spesa pubblica o agli investimenti del grande capitale, sono gli ingegneri, i geometri e gli architetti. Sono  dipendenti dalla spesa pubblica anche i farmacisti. 
Si è invece consolidata la classe degli artigiani indipendenti, con la funzione di base logistica di servizio, di castrum, rispetto alla produzione industriale padana.        
Le famiglie benestanti cercano di ancorare il guadagno di oggi in qualcosa che è idonea a riprodurre un reddito nel tempo, come un appartamento da affittare, investimenti  in titoli o in assicurazioni, e cose simili. Tuttavia l’investimento, oggi, più diffuso e comune è la formazione professionale dei figli. Tramontata (o resa sterile dalla politica comunitaria) l’attitudine della nostra agricoltura a riprodurre il reddito, la grandissima maggioranza dei genitori meridionali  ha adottato, per i figli, un’ottica tipicamente proletaria: quella di chi ha in sé stesso, nel suo corpo, nelle sue braccia e nel suo cervello l’unica merce da vendere. Al Sud, sempre più raramente si tratta di un lavoro indipendente. La maggior parte dei giovani va a scuola per diventare un laureato. E da laureato, un impiegato dello Stato. I più non ce la fanno a laurearsi. Rimasti a mezza strada, ridimensionano la loro attesa, ma sempre come impiegati dello Stato. Infatti, la delusione della famiglia, sicuramente cocente sul lato del prestigio, e quella non minore del giovane, a proposito del giudizio di sé stesso e sulle proprie capacità, fino a qualche tempo fa, era ammorbidita dal fatto che l’impiego pubblico assicurava al giovane non laureato un trattamento economico  non molto diverso da quello di un laureato.  Chi  entrava nei ranghi del pubblico impiego era sicuramente un lavoratore dipendente, ma  socialmente, giuridicamente ed economicamente garantito. I genitori organizzavano le risorse economiche familiari in vista di tale approdo e guidavano il figlio ad attrezzarsi culturalmente nel modo richiesto. 
Un qualunque corso di studi, ma in particolar modo un corso di studi universitari – indipendentemente dal risultato  positivo o negativo –  ieri era costoso e oggi lo è di più. Le risorse familiari sono distratte da un diverso investimento e consumate a favore di quel progetto. Spesso sull’altare di una laurea è necessario sacrificare un bene ereditato, sterizzando una risorsa formatasi nel corso di parecchie generazioni. Ma, ultimamente, le prospettive si sono rovesciate, senza che la classe politica, che reggeva lo Stato e gestiva le pubbliche risorse, ammonisse le famiglie circa il mutamento di rotta. Il pubblico impiego non è più la valvola di sfogo di una classe che è scesa dalla rendita al lavoro dipendente o che, lasciata la terra, cerca attraverso l’impiego pubblico l’ascesa sociale. Il gregge meridionale continua il suo fatela andare e la luna in cielo resta a guardare. D’altra parte il Sud non offre alternative. Professore o bidello, medico o infermiere
, segretario comunale o netturbino, ieri il figlio mangiava, metteva su casa, generava a sua volta figli. Oggi non più.  E’ sopraggiunto il festival liberal-liberalista: ognuno è padrone di scommettere sul proprio avvenire e i cocci sono suoi. Un giovane che sta cinque o dieci anni all’università, per altrettanto tempo non viene contato fra i disoccupati. Inoltre, la folla degli universitari, benché senza avvenire, rappresenta una bella rendita per le città che sono sedi di grandi atenei. Roma, Pisa, Siena, Firenze, Bologna, Pavia fanno a gara per risucchiare rette, pigioni,  panini imbottiti con pessima mortadella e biglietti tranviari, dai proletari, disoccupati in fieri, o se vogliamo, omerici accattoni. 
I buffoni della politica sono in scena. La nave affonda, e loro, come il “Pianista” del film,  continuano a pestare i soliti tasti. Le famiglie hanno capito che il rifugio si è fatto stretto, ma su qual altro traguardo puntare? I padri e le madri tremano, ma continuano a spronare il figlio perché raggiunga il chimerico traguardo di forza-lavoro dello Stato magnanimo. 
Sono lontani i tempi in cui le popolazioni meridionali entravano prepotentemente sulla scena politica combattendo i francesi e i padani invasori, e le sciamberghe paesane che funzionavano da quinta colonna del nemico. Degli antichi briganti, ancorché vinti, massacrati, sterminati, deportati, immiseriti, sicuramente eroici attori, patrioti di un paese libero e autocentrato, non è rimasto più niente, tranne l’antistato mafioso. Anche l’alternativa  o emigranti o briganti è evaporata nei fumi della toscopadanità trionfante. 
Abbiamo tradito i nostri figli per viltà politica. Quando la corsa alle svalutazioni competitive, imposta dalla Fiat & C. ai governi cosiddetti nazionali, giunse al capolinea,  Ciampi accettò il diktat tedesco e svalutò la lira per l’ultima volta. Dopo di che è salita in cielo la stella Bassanini. Le pubbliche assunzioni sono state  condannate come un lusso che il popolo leghista, lavoratore e produttore, non poteva più permettere a degli incalliti dissipatori di pubbliche risorse, ai figli degli invocati Etna e Vesuvio. Tutto alle banche di Milano, Torino e Pascoli Toscani. Le banche si sono gonfiate e gonfiate, come la rana che voleva fare concorrenza al bue. Oggi dirigono il paese in tutto, persino nella riproduzione fallimentare di sogni impiegatizi. 
Nella favola, la rana scoppiò. Ma oggi, forse, le rane hanno lo stomaco d’acciaio.
Nicola Zitara
Aprile 2006
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