I Borbone a Napoli




Grande entusiasmo e grande affetto per i Borbone presenti a Napoli in occasione della beatificazione di Maria Cristina di Savoia Regina delle Due Sicilie nella Basilica di Santa Chiara.
Dopo la solenne e suggestiva cerimonia presieduta dal Cardinale Crescenzio Sepe in una chiesa gremita e alla presenza dei rappresentanti delle più importanti famiglie nobili d’Europa, gli ultimi discendenti della dinastia borbonica guidati dal Principe Carlo di Borbone Duca di Castro con Camilla Duchessa di Castro e le piccole Maria Carolina e Maria Chiara, principessine di Palermo e di Capri, sono stati salutati da centinaia di persone con bandiere borboniche.
La Fanfara dei Civici Pompieri in uniformi del tempo ha eseguito l’Inno delle Due Sicilie di Paisiello di fronte ad una folla rappresentativa di una Napoli e di un Sud sempre più legati alla propria storia e ai suoi simboli viventi.  
Fiori e gigli per le Principesse, una confezione di “sigari delle Due Sicilie” di Di Marino nel ricordo di Re Ferdinando II (amante dei sigari), vini tipici di “Borbonico.eu” tra passato e futuro per il Principe e, per le Principessine, due “Barbie borboniche” vestite con piccoli di abiti in seta di San Leucio e ricami di stemmi delle Due Sicilie a cura delle sarte di S. Gregorio Armeno e del maestro Vucai.
Nel pomeriggio centinaia di bambini e di bandiere, invece,  presso la parrocchia di S. Pietro Apostolo a S. Pietro a Patierno, hanno salutato la Famiglia Reale ringraziandola con grande calore per i doni anche con uno striscione (“Famiglia Reale: benvenuta a casa”). L’appuntamento, nel segno della solidarietà cristiana della Beata Maria Cristina e della dinastia borbonica, sempre profondamente e autenticamente cattolica, ha fatto seguito all’incontro di venerdì pomeriggio presso la Fondazione Rione Sanità a Napoli.



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Statue Borboniche a Messina

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Maria Cristina di Savoia



LA REGINA SANTA

Con i Borbone a Santa Chiara 

per la beatificazione di 

Maria Cristina 

Regina delle Due Sicilie





Sabato 25 gennaio presso la Basilica di Santa Chiara a Napoli, con una solenne cerimonia presieduta dal Cardinale Crescenzio Sepe, Maria Cristina di Savoia, Regina del Regno delle Due Sicilie, sarà beatificata. 
Saranno presenti i discendenti delle famiglie nobili più importanti d’Europa (alcuni graditi, altri meno graditi a Napoli e nel Sud). Per sottolineare l’appartenenza della nostra Regina Beata saranno presenti anche tutti i componenti della famiglia Borbone Due Sicilie nel mondo, in testa il Principe Carlo di Borbone, Duca di Castro, la Duchessa Camilla, le Principessine Maria Carolina e Maria Chiara. 
Per i tanti che amano i Simboli Viventi della nostra storia è un’occasione per dimostrargli (con una presenza più che mai necessaria) tutto il nostro affetto; è un’occasione, inoltre, per dimostrare tutta l’indifferenza per case reali che non hanno alcun rapporto con la nostra antica capitale e la nostra antica Patria.

L’Appuntamento dei Compatrioti ed amici 

è nel CORTILE DI SANTA CHIARA SABATO 25 GENNAIO, alle ore 12.00, e cioè appena dopo la cerimonia religiosa che avrà inizio alle 11, con bandiere e fiori per gli ultimi discendenti di una dinastia che seppe fare grandi Napoli e il Sud.


Secondo Appuntamento

Nel segno dei valori cristiani ben rappresentati da Maria Cristina e dalla dinastia Borbone, tra passato e presente, dopo la cerimonia religiosa, SABATO 25 ALLE ORE 16.00, il Movimento Neoborbonico accompagnerà la Famiglia Reale presso la chiesa di San Pietro Apostolo (S. Pietro a Patierno-Capodichino) per l’assegnazione di doni e borse di studio alla comunità guidata da Don Francesco Cirino. Il giorno precedente una visita presso la Fondazione Rione Sanità presso i padri Vincenziani.


La storia
 La Beata Maria Cristina, nata a Cagliari nel 1812, era figlia di figlia del Re di Sardegna Vittorio Emanuele I (1759-1824), fiero oppositore della rivoluzione francese e del liberalismo. Fu moglie di Ferdinando II di Borbone e madre di Francesco II, ultimi Re delle Due Sicilie. Per molti aspetti (storici, politici e religiosi) fu un simbolo del “contro-Risorgimento” ed è stato questo uno dei motivi principali delle difficoltà del processo di beatificazione. Il matrimonio con Ferdinando fu celebrato nel 1832: il 30 novembre gli sposi arrivarono a Napoli da Genova accolti da una folla festante; il giorno dopo si recarono in vista al Duomo di Napoli. Una parte del denaro previsto per le nozze fu assegnata a 240 ragazze bisognose di doti e ad altre opere caritatevoli. Fu un matrimonio felice, come testimoniano le lettere della sovrana: un matrimonio segnato dallo scambio di idee e sentimenti cristiani nonostante la diversità dei caratteri e al contrario di quanto sostenuto in diverse, consuete ma superate “leggende” antiborboniche.  La “reginella santa” fu amata a Napoli per la sua profonda religiosità e per le sue opere di pietà e carità. Morì il 31 gennaio del 1836 pochi giorni dopo la nascita di Francesco, fu sepolta nella Cappella dei Borbone a Santa Chiara l’8 febbraio. 
Fu considerata “napoletana” a tutti gli effetti anche a livello popolare e già subito dopo la morte in tanti si recavano in preghiera sulla sua tomba. Nel 1853, con i Borbone, l’inizio del processo di beatificazione a riprova della “piena coscienza dinastica”, come ammise lo stesso Croce. Alcuni “briganti” arrestati nel 1861 furono trovati
con alcune bandiere che riproducevano da un lato l’Immacolata Concezione e dall’altro Maria Cristina inginocchiata davanti alla Madonna mentre calpesta la croce dei Savoia. Dichiarata “venerabile” da Papa Pio IX nel 1859, nel 2014 è stata finalmente dichiarata “beata”.
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Quando in Calabria c'erano le farfalle

di Antonio Grano

Nel solito, assordante silenzio degli organi di informazione di massa, nel 2010 a Cetraro (Calabria Saudita) si svolse una manifestazione di cittadini che si ribellarono dopo aver scoperto che a poche miglia dalle loro spiagge era stata fatta affondare una nave russa, carica di scorie radioattive, che i porti del Nord avevano molto opportunamente evitato come la peste. Tutti presi dalle sempiterne vicende politiche sui soliti governi di larghe o meno larghe intese, gli organi di disinformazione di massa sversarono nella vecchia discarica della memoria le sacrosante preoccupazioni di quella gente. Nessuna attenzione a quei miserabili calabresi che osarono invocare la restituzione dei tesori che l’avida e famelica Padania gli aveva rubato: il cielo, il mare, le stelle, l’aria. I “padani” non sanno dov’è Cetraro. Non sanno che quei siti giacciono nella bolgia degli inquinati. Quella che è stata depositata nei loro mari e nelle loro terre è la monnezza radioattiva prodotta dalle loro dannate fabbriche di morte e dalla loro micidiale ideologia capitalistica. Il capitalismo padano ha distrutto un lembo di paradiso. La Calabria era il paradiso terrestre. Fino a poche decine di anni fa l’acqua del mare era pura; la si poteva bere. C’erano le nostre meravigliose foreste, i nostri laghetti, i nostri ruscelli; c’erano le lucciole, i grilli, le cicale, le farfalle, le lucertole. Il pesce della nostra Calabria lo si poteva mangiare crudo. Fino a poche decine di anni fa noi calabresi non conoscevamo la parola ‘ndrangheta, per il semplice motivo che non esisteva se non nella letteratura di alcuni studiosi di antropologia.. Non esisteva come formazione malavitosa così come la conosciamo oggi. Il termine ‘ndrangheta apparve formalmente per la prima volta in un articolo di Corrado Alvaro sul Corriere della Sera del 1955, guarda caso, quando il capitalismo iniziava a mettere le “mani sulle città”.
I calabresi erano gente buona, onesta, solidale, e per chi ci crede, timorata di Dio. I vecchi contadini calabresi erano grandi amici della terra. L’amavano, la trattavano come una loro creatura. La rispettavano! Questi erano i calabresi e la Calabria prima che fossero contagiati e infettati dall’ideologia dello “sviluppo” del “consumo” e della “crescita” capitalistica. Oggi la Calabria (per non parlare della Campania) è diventata la discarica a cielo aperto del Nord “progredito” e “civilizzato”. I predatori piemontesi nell ’860 invasero, saccheggiarono e depredarono il Mezzogiorno facendone una loro colonia; i loro nipotini hanno distrutto e devastato quel poco ch’era rimasto da distruggere e devastare. Ci sono le armi chimiche provenienti dalla Siria? No problem: con le rassicuranti garanzie dei ministri Lupi famelici eccovi, sudditi calabresi alcune migliaia di tonnellate di armi chimiche da smaltire nel vostro porto di Gioia Tauro. Preavviso? Trattativa con le Amministrazioni locali? Manco a Parlarne. Decidiamo noi per voi. Come sempre.
Invece di mandarci le balle di armi chimiche, non potevate affidarci lo smantellamento della Costa Concordia? Siamo bravissimi, siamo attrezzarti, lo avete riconosciuto anche voi. 
No! Quella, casa nostra è e l’affideremo ad un porto civilizzato del Nord Italia.
Assabenedica Vossia!

  
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Le storie dei Borbone





Le (false) storie dei Borbone da non acquistare: 
il Mattino ci riprova ancora!  

Il Mattino ha ripreso la pubblicità per la vendita della storia dei Borbone firmata da Dumas: siamo costretti a ripetere l’appello già lanciato qualche mese fa: NON COMPRIAMO LA STORIA DEI BORBONE DI DUMAS PROPOSTA DA IL MATTINO! Sicuri del (consueto) successo delle nostre “campagne”…  vi ri-alleghiamo le motivazioni… Il (solito) Mattino sta lanciando in questi giorni una iniziativa “speciale”: la possibilità di acquistare insieme al quotidiano i due volumi della “Storia dei Borbone di Napoli” di Alexandre Dumas. La cosa più sorprendente, però, è lo slogan che accompagna la pubblicità del libro che racconta “la storia della dinastia che portò importanti sviluppi economici, artistici e culturali nella Napoli capitale”. Due considerazioni e un suggerimento: 1) nel libro di Dumas non c’è alcuna traccia di questi sviluppi positivi ottenuti dai Borbone (in tutti i settori): Dumas, giornalista, romanziere (tutt’altro che “storico”), massone e accompagnatore/ufficio stampa di Garibaldi, 
al centro di numerosi scandali politici e personali, è stato uno dei peggiori diffusori di leggende e bugie contro i Borbone; 2) Il Mattino da tempo, ormai, ha dato spazio a interventi unilaterali ignorando tutti gli aspetti positivi del governo borbonico e rinunciando anche a qualsiasi forma di dibattito sul tema: se ne ricorda solo per pubblicizzare la sua iniziativa commerciale quasi ammiccando ai (tanti) borbonici/neoborbonici potenziali acquirenti… 3) NON COMPRIAMO QUEL LIBRO PROPOSTO DAL MATTINO…




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CompraSud


SUD: IMPRESE-CONSUMATORI, 
INSIEME NEL PROGETTO COMPRASUD

L’ultimo rapporto del Censis (“Centro studi investimenti sociali”), presentato il 6 dicembre scorso a Roma, è stato pochissimo citato. Per il Sud, il rapporto del Centro Studi (non governativo) segnala, accanto al divario noto e crescente con il Nord-Italia, un fenomeno nuovo, quello del ricambio etnico in atto nel settore del commercio. «Vi sono territori – scrive il Censis – dove i commercianti stranieri hanno superato gli italiani, o comunque si stanno avvicinando (…) questo avviene soprattutto al Sud, in aree considerate depresse e prive di opportunità imprenditoriali. È immigrato il 73,8 % dei negozianti a Castel Volturno (Caserta) ed il 42,6% a Caserta». Le nazionalità prevalenti dei nuovi proprietari dei negozi sono Marocco, Cina e Senegal. 
Più in generale, il rapporto 2013 del Censis segnala la riduzione della base produttiva del Sud. «Tra il 2009 ed il 2013 ci sono 39.500 imprese in meno. Tra il 2007 ed il 2012 il Pil (prodotto interno lordo) del Sud ha perso 41 miliardi». 
Perché il rapporto del Censis è passato sotto silenzio anche tra i “meridionalisti”, specializzati nella lamentazione perpetua sui “fondi tagliati al Sud”, che rimpiangono la Cassa per il Mezzogiorno ed il sistema di scambio che per decenni ha consentito alle grandi imprese del Nord di crescere a danno delle imprese meridionali ed al ceto politico meridionale di intermediare le risorse pubbliche alimentando così il proprio consenso?
Perché la denuncia sul ricambio etnico, con gli immigrati che sostituiscono i commercianti meridionali stremati dall’oppressione fiscale, dalle diseconomie e dai costi aggiuntivi che debbono affrontare su territori disamministrati, non è politically correct e non è in linea con il mainstream del pensiero unico.
Meglio continuare la lamentazione sui fondi tagliati a Regioni e Comuni, meglio prendersela con la Lega, meglio invocare nuove misure assistenziali (che vincolano masse di assistiti al ceto politico di governo) come il “reddito di cittadinanza”. 
È la ricetta per mantenere a galla una classe politica incapace e screditata, sperimentata dalla sinistra statalista ed ideologica in tutto il mondo. In Brasile, dove le estensioni di terra incolta sono sterminate e le opportunità per la zootecnia enormi, oltre alla grande disponibilità di materie prime, il governo del PT (“Partito dei lavoratori”), di matrice marxista, ha lanciato i progetti “Fome zero” (“Fame zero”) e “Bolsa Familia” (“Borsa familiare”), assistendo con un assegno mensile circa 16 milioni di famiglie invece di creare nuovi piccoli imprenditori agricoli ed allevatori incentivando l’accesso alla coltivazione delle terra e la zootecnia. Il PT, prima con Lula, ora con il suo delfino Dilma Roussef, si mantiene al potere dal 2003 nonostante la corruzione e gli scandali a ripetizione. In cambio il Brasile, potenzialmente un gigante dell’economia, cresce da decenni meno degli gli altri Paesi latino-americani, e negli ultimi tre anni è rimasto al di sotto di tutte le stime degli economisti. Nel terzo trimestre 2013 il suo Pil ha segnato un – 0,5%, mentre la spesa pubblica è cresciuta ancora dell’1,2% (Reuters, 3.12.2013).
I meridionali, da soli, possono fare qualcosa per l’economia del Sud? Sì, ed è questa l’idea che sta alla base del Progetto CompraSud, nato da un’idea del Movimento Neoborbonico e presentato in una nuova iniziativa dalla Fondazione Il Giglio il 12 dicembre all’Hotel Renaissance Mediterraneo di Napoli. Uniti dal senso di appartenenza e dall’identità culturale, i compratori meridionali costituiscono una massa critica capace di influire sul mercato e di produrre effetti sull’economia. Alleandosi con le imprese meridionali, in un patto che vede i consumatori preferire i prodotti delle imprese meridionali e le imprese favorirli con sconti ed agevolazioni di acquisto, si può far crescere l’economia del Sud. Lo stesso meccanismo può valere per le banche (certo sono poche, ma vanno difese) ancora a direzione meridionale. La preferenza dei risparmiatori può avere una ricaduta positiva perché le banche meridionali investono dove raccolgono. È il motivo per preferirle. 
Le scelte preferenziali dei consumatori meridionali sono in grado di condizionare le grandi imprese e condizionare la pubblicità. La solidarietà identitaria può funzionare anche per boicottare le pubblicità offensive e denigratorie per il Sud. 
Dalla cultura e dall’identità comune all’economia, con un patto tra consumatori ed imprese. È questa l’idea del Progetto CompraSud. Le prime aziende hanno aderito, ora si punta a costruire un circuito e, soprattutto, a diffondere una mentalità: Comprare Sud per aiutare il Sud. (LN71/13).

http://www.editorialeilgiglio.it/faq.php?lng=it 



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La villa di Carditello ora è proprietà dello Stato

La Reggia dei Borbone appartiene agli Italiani.
Accordo firmato, parte la sfida del recupero dopo i saccheggi dei clan e le aste a vuoto. 
Il ruolo delle associazioni antiracket.
È nostra, finalmente. Dopo mille tormenti societari e mille razzie vandaliche e mille incubi sul destino d’ineluttabile degrado, la Reggia di Carditello, la stupenda Versailles agreste dei Borbone, appartiene da ieri a tutti gli italiani. Era ora. Anche se adesso viene il difficile: vincere la camorra sul suo terreno. 
Erano anni che la magnifica residenza settecentesca progettata come reggia di caccia per Carlo di Borbone da Francesco Collecini, braccio destro di Luigi Vanvitelli, e trasformata poi da Ferdinando IV in una villa delle delizie al centro di una tenuta modello di 2.070 ettari bagnati dalle acque dei Regi Lagni, pareva avviata a diventare un rudere.

Come fosse nell’epoca d’oro, possiamo immaginarlo: campi e vigne e frutteti a perdita d’occhio. Quando ci passò Wolfgang Goethe restò incantato spiegando che bisognava andare di lì «per comprendere cosa vuol dire vegetazione e perché si coltiva la terra. (…) La regione è totalmente piana e la campagna intensamente e diligentemente coltivata come l’aiuola di un giardino». 
Finita dopo l’Unità d’Italia nel bottino del re Vittorio Emanuele II, che già aveva le sue tenute dove sfogare la passione venatoria a Venaria e a San Rossore, la reggia agreste fu affidata perché se ne occupasse all’allora capo della camorra locale. Il primo di tanti errori e tante scelleratezze. Che importava, ai Savoia, di quella meravigliosa proprietà terriera? 
Oltre mezzo secolo di disinteresse dopo, come ha scritto Gerardo Mazziotti sul Corriere del Mezzogiorno, «gli immobili e l’arredamento passarono dal demanio all’Opera Nazionale Combattenti e i 2.070 ettari della tenuta furono lottizzati e venduti. Rimasero esclusi il fabbricato centrale e i 15 ettari circostanti». Era il 1920. Quasi un secolo fa.
Passata la II Guerra mondiale, durante la quale era stata occupata dai nazisti che andandosene si erano portati via quanto potevano, compresi un po’ di camini, la Reggia di Carditello finì per entrare nel patrimonio immobiliare del Consorzio generale di bonifica del bacino inferiore del Volturno. Un carrozzone destinato a esser assorbito dalla Regione e via via a sprofondare sotto una montagna di debiti mai pagati. Debiti in gran parte nei confronti del Banco di Napoli. Col risultato che, quando questo naufragò, tutto finì ipotecato dalla Sga, la «bad bank» che ammucchiò, dopo il crac, i crediti in sofferenza dell’Istituto fallito.

Certo, se la Regione Campania avesse restituito il dovuto, la faccenda sarebbe stata chiusa prima. Ma dove trovarli, i soldi? E così, la splendida dimora tra Napoli e Caserta che aveva vissuto una sua ultima stagione decorosa quando era stata scelta come sede di prestigio dai responsabili dell’Alta Velocità allora in costruzione tra Roma e Napoli ed era stata perciò sottoposta a un parziale restauro della parte più nobile, era stata abbandonata a se stessa in attesa di trovare un compratore.

Macché, a vuoto la prima asta, a vuoto la seconda, a vuoto la terza… E man mano che la Reggia veniva abbandonata a se stessa e il suo prezzo calava e calava, i camorristi della zona l’hanno cannibalizzata portandosi via tutto: i marmi delle scalinate, gli stucchi, i cancelli, le panche, i camini, i pavimenti dell’altana, l’impianto elettrico, tutto… Era stato installato, dopo il parziale restauro, un sistema d’allarme: rubato anche quello. Per finire insieme con le colonnine delle balaustre, chissà, nella villa di qualche boss.

Metteva il magone, vedere il progressivo e devastante degrado di quel tesoro d’arte e bellezza che ogni paese del mondo, al posto nostro, avrebbe trasformato in una fonte di ricchezza turistica riportandolo magari alla vocazione originaria e cioè quella di un centro di eccellenza dell’agricoltura. Metteva il magone annotare come all’umiliazione dei saccheggi barbarici si fosse sommato l’accumulo di spropositate quantità di immondizia, «normale» e tossica, buttate nelle discariche, «regolari» e clandestine, tutto intorno. Un assedio di puzza e veleni.

Il calvario, ieri, ha avuto una svolta. Preso atto che la vendita all’asta non c’era modo che andasse a buon fine (e meno male, a questo punto) la Sga ha incamerato la Reggia a pagamento del debito. E, ieri mattina, ha firmato un contratto preliminare per cedere la dimora settecentesca al ministero dei Beni culturali e del Turismo che aveva a suo tempo sborsato i soldi per il restauro vanificato dal successivo vandalismo. 

L’aveva giurato, Massimo Bray. L’ha fatto. E oggi ha diritto ad assaporare, insieme con i protagonisti di Intesa-San Paolo (subentrati al Banco di Napoli) il miele degli elogi, così raro di questi tempi per chi governa. Evviva. Finalmente sul fronte del nostro patrimonio artistico e culturale è stato battuto un colpo. Bravi.


Restano un problema e una nota d’amarezza. Il problema è che ora la reggia di Carditello dev’essere restituita al suo originario splendore. E non è solo una questione di soldi. Il rischio è che ogni carriola di ghiaia, ogni sacco di cemento, ogni mattone del restauro possano pagare il pedaggio ai Casalesi. E lì lo Stato, a ridosso della Terra dei fuochi, si gioca tutto. Occorrono, con il concorso obbligato degli enti locali e delle associazioni anti-camorra che verranno coinvolti, tre risanamenti paralleli: quello ambientale del territorio avvelenato, quello estetico della Real Delizia dove sono stati strappati perfino brandelli degli affreschi e quello morale di un territorio infiltrato dalla criminalità.

L’amarezza è per la scomparsa di Tommaso Cestrone, il volontario della protezione civile che aveva dedicato la vita, negli ultimi anni, a proteggere ciò che restava della Reggia. Nonostante le minacce. Gli incendi. Le intimidazioni. L’uccisione delle sue pecore. Sarebbe felice, oggi. La notte del 25 dicembre postò su Facebook un messaggio a Bray: «Auguri dalla Reggia di Carditello. Il mio Natale è qua». «Carditello è chiusa da troppo tempo», gli rispose il ministro, «Cercherò una soluzione perché torni alla sua bellezza e sia aperta a tutti». Poco dopo, quella notte, Tommaso se ne andò.
9 gennaio 2014 .

Fonte: www.corriere.it 
© RIPRODUZIONE RISERVATA 



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Tutta colpa del Sud

Un giovane storico, una vecchissima tesi e un altro libro da non comprare.

Ancora un altro (l’ennesimo) saggio sul Sud ma contro il Sud scritto da un “giovane storico”, come lo definisce la recensione/intervista  pubblicata in questi giorni dal Corriere del Mezzogiorno e con un titolo a tutta pagina molto chiaro (“Tutta colpa del Sud”). Dopo i testi pubblicati, tra gli altri, dai Cazzullo, dai Barbero, dalle De Lorenzo o dai Rizzo&Stella, ancora un saggio che da un lato, e per fini chiaramente pubblicitari, vorrebbe essere “provocatorio”, dall’altro ripete in maniera stanca e monotona le tesi di molti degli autori già citati. Si tratta di “Perché il Sud è rimasto indietro” di Emanuele Felice che, ovviamente, vi invitiamo a non comprare: ne acquisteremo una sola copia per le dovute analisi e la metteremo a disposizione gratuitamente di chi vorrà eventualmente leggerlo. Resterà scolpita per sempre nella nostra biblioteca universale una delle frasi più originali degli ultimi decenni: “Il Sud non può essere assolto per il suo ritardo, anzi se ne deve assumere tutte le responsabilità se vuole andare avanti” [come se da oltre 150 anni l’autoflagellazione non fosse già lo sport preferito dai meridionali]; evidentemente profonda  e innovativa anche l’analisi che porta “il giovane storico” ad affermare che “nel Sud dominano la criminalità organizzata, il clientelismo, la violazione del diritto, tutte eredità del precedente regno borbonico che si trasmettono al nuovo stato unitario”.  Ovviamente, poi, “tutti quelli che [presumibilmente si tratta di neoborbonici e/o di neo-terroni “seguaci” di Pino Aprile] vanno in giro  dicendo che il Sud è rimasto indietro per colpa di altri (dei settentrionali)” sarebbero i veri colpevoli dei mali del Sud. Se è vero che “nessun’altra parte del mondo avanzato è oggi ridotta come il Sud”, è vero, per il “giovane storico”, che “il dibattito pubblico è dominato da una gigantesca operazione mistificatoria che tende ad assolvere i misfatti dei ceti dirigenti meridionali, misfatti reiterati da due secoli” [ma qui l’analisi manca di approfondimenti che avrebbero consentito, forse, di scoprire colpe più che secolari fino a risalire ad un dna di stampo inferiore per la razza napoletana/meridionale…]. E così, allora, “le classi dirigenti predatorie hanno costruito una narrazione della vicenda meridionale falsa ma vincente che ha fatto presa nella società e ha reso le riforme più difficili: si pensi alle favole sul regno borbonico benevolo e avanzato e alle spropositate accuse di sfruttamento rivolte ai settentrionali” (la solita tesi dell’atteggiamento “auto assolutorio”): eppure non ci risulta un solo nome (uno solo!) di politico e/o intellettuale “borbonico” più o meno da 150 anni. Eppure, dopo un secolo e mezzo, solo negli ultimi anni si stanno facendo strada (con successi editoriali clamorosi come quelli di Pino Aprile e il suo Terroni) tesi che, neoborboniche o meno, stanno ricostruendo in una luce diversa la storia delle Due Sicilie e dell’unificazione. Eppure per oltre un secolo e mezzo, in regime di monopolio culturale assolutistico, ci è stato esattamente raccontato fino alla nausea tutto quello che l’autore ci racconta oggi. Il punto più debole del discorso, del resto, è proprio questo: al contrario di quanto afferma il “giovane storico”, dati e nomi e cognomi alla mano, non esiste alcuna continuità tra le classi dirigenti borboniche e quelle unitarie. Furono arrestati, processati, licenziati, messi in prigione o davanti ad un plotone di esecuzione, tutti quelli che vagamente si mostravano legati al vecchio regime: dati del fondo Questura dell’Archivio di Stato di Napoli alla mano, vennero licenziati finanche i bigliettai delle ferrovie sorpresi semplicemente a comprare giornali “reazionari” e si poteva essere processati per “borbonismo” ancora agli inizi del Novecento se solo si scrivevano canzoni ironiche su Garibaldi (capitò al grande poeta Ferdinando Russo). Eppure l’autore ha il coraggio di sostenere la tesi di classi dirigenti colpevoli e “borboniche” quando è vero l’esatto contrario con la formazione di classi dirigenti unitarie effettivamente inadeguate, corrotte e capaci di difendere da allora ad oggi unicamente i propri interessi strettamente collegati agli interessi delle classi dirigenti nazionali e che dal 1860 ad oggi hanno fatto e fanno dell’antiborbonismo il test d’ingresso nella classe dominante. Punto ancora più debole, allora, la tesi dell’arretratezza delle Due Sicilie: nonostante gli studi più documentati e aggiornati di autori come quei Daniele, Malanim, Fenoaltea, Tanzi o Collet che siamo costretti a citare ogni volta che viene pubblicato un testo come quello di cui stiamo parlando e che pure hanno dimostrato le “pari condizioni” o la superiorità del Sud rispetto al Nord in quanto a redditi medi, a PIL o a industrializzazione, l’autore non rinuncia ai luoghi comuni più abusati nelle questioni affrontate proprio perché la rinuncia a queste convinzioni dimostrerebbe l’infondatezza della tesi originaria (“è colpa del Sud”, “è stata sempre colpa del Sud”…) e che, con modalità e stili diversi, negli ultimi tempi sembra essere un vero e proprio “mantra” presso la storiografia “ufficiale” fino al consueto “il Sud ora si arrangi o faccia da solo” che ha connotato e connoterà la politica più recente.  Venature inquietanti di razzismo affiorano nell’autore nonostante le sue origini meridionali quando afferma che “l’ltalia di oggi somiglia di più alle Due Sicilie che non al Piemonte” (eppure gli sarebbe bastato dare un fugace occhiata alla monumentale opera del Landi sulle istituzioni borboniche o a diritto e codici delle nostre parti) o quando, incalzato (si fa per dire) dalla giornalista autrice dell’articolo, arriva addirittura a sostenere in purissimo stile padano e come se si trattasse di un pericoloso e contagiosissimo virus, che “i mali del Sud si sono estesi al Nord anche per alcuni eloquenti dettagli (si pensi a Bossi che fa eleggere il figlio)” con uno dei più classici esempi di quel “familismo amorale” di cui solo sotto il Garigliano si annoverano i più fulgidi esempi. Né più né meno quello che affermavano e affermano i Giorgio Bocca o i Calderoli che proclamavano e proclamano con fierezza il loro razzismo.  Leghisti del Nord, allora, accomunati ai leghisti del Sud (nonostante da queste parti manchino testimonianze della loro esistenza più o meno da 150 anni) nella difesa “del proprio territorio e del proprio recinto” e del tutto “diversi da quei settentrionali che hanno fatto l’unità d’Italia” [nonostante manchino testimonianze di un solo provvedimento pensato e realizzato a favore del Sud durante gli anni dell’unificazione].  E così “chi ha voluto cambiare le cose è stato sistematicamente sconfitto” [non sappiamo se per mero e secolare accanimento del Fato o per mera e genetica inferiorità delle masse meridionali nemiche del nuovo, come sarebbe piaciuto sottolineare ad un Cesare Lombroso]. Le soluzioni? Anche qui l’autore si mostra veramente innovativo e originale: “un massiccio intervento esterno che imponga regole meritocratiche” [magari, suggeriremmo noi, un migliaio di stranieri di varia provenienza possibilmente in sgargianti camicie rosse] e che spezzi la connivenza tra le classi dirigenti meridionali e la criminalità” [in pratica quello che si proclama da oltre 150 anni, come se la criminalità non fosse stata -dal 1860 in poi- e non fosse -come dimostrano le recenti indagini sui rapporti Stato/mafia-
funzionale ad un intero sistema nazionale]. Manca, nelle parole dell’autore, e ci permettiamo di suggerirlo noi, qualsiasi riferimento ai massacri subiti dalle popolazioni meridionali nella famosa guerra del “brigantaggio”, una guerra che avrebbe potuto determinare la fine di tutti i problemi e dei mali del Sud (e la fine degli artefici di quei mali e cioè i meridionali) se solo le truppe piemontesi avessero continuato la loro opera e non l’avessero fermata dopo circa dieci anni… Piove? Tutta colpa del Sud, allora… e vi suggeriamo di applicare questa formula in qualsiasi situazione. Con interviste di questo tipo e con queste premesse è impossibile non ripetere il democratico (ed efficace, visti gli ultimi risultati riscontrati in casi simili) appello iniziale: non compriamo questo libro ed evitiamo anche di parlarne… 



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Francesco Saverio Nitti

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La Reggia del Carditello è salva



Dopo una vicenda dolorosa durata anni che ha visto impegnati meridionalisti, volontari, associazioni, storici, artisti, politici e sindaci è giunta finalmente la soluzione. 
La sensazione che la faccenda stava prendendo il verso giusto l’abbiamo avuta quando il ministro dei beni culturali Massimo Bray, dopo non poche preghiere ed inviti, accettò finalmente di visitare il sito. Quando arrivò, attorniato da numerose autorità locali, da una prima fase di vistoso sconforto, passò ad una di forte carica. A dargliela era stato l’angelo del Carditello, Tommaso Cestrone, il volontario di Protezione Civile che della salvezza di questo eccezionale monumento ne aveva fatto la sua ragione di vita. E mentre Cestrone nella notte di Natale a soli 48 anni volava in cielo stroncato da un infarto, il ministro manteneva la sua promessa offrendo, in vista della prossima asta (tutte le altre sono andate deserte), 11,5 milioni di euro per l’acquisto della Reggia da parte dello Stato. Dopo l’annuncio della decisione, Bray ha dichiarato: “Sono davvero contento di aver mantenuto la promessa fatta a Tommaso. Ora il Carditello appartiene ai cittadini”.
La nostra soddisfazione è immensa, ma è offuscata dal ricordo di Tommaso che non ha potuto gioire insieme a tutti noi.



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