La Battaglia di Lauria

Lauria

CI VEDIAMO MERCOLEDI’ 10 AGOSTO A LAURIA (PZ) PER LE GIORNATE DELLA MEMORIA DELLA BATTAGLIA DI LAURIA E PER RICORDARE (COME FACCIAMO DAL 2003) GLI OLTRE MILLE LAURIOTI MASSACRATI DAI FRANCESI…

ALLE 22 CONCERTO DI MUSICA POPOLARE CON

GIANNI AVERSANO&NAPOLINCANTO  

(GRADINATE LARGO PLEBISCITO).

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A Pietrarsa. Memoria, Orgoglio e Riscatto

 

Pietrasa interno#001

PIETRARSA, 6 AGOSTO 1863

Da tempi non sospetti e grazie alle nostre ricerche archivistiche, fin dalla fine degli anni Novanta celebriamo i primati e i martiri di Pietrarsa. Ora, in tanti, celebrano giustamente la data del 6 agosto per ricordare il massacro degli operai (almeno sette, come documentato nelle nuove e aggiornate ricerche pubblicate in “Noi, i neoborbonici”). Cambia la storia e ne siamo felici e fieri. Memoria, Orgoglio e Riscatto anche a partire da Pietrarsa. Allegata una sintesi storica delle vicende.

PIETRARSA DAI PRIMATI AI MARTIRI

In Italia la prima fabbrica metalmeccanica, per produttività ed estensione, era quella di Pietrarsa. Voluto da Ferdinando II, tra Portici e San Giovanni a Teduccio, a pochi chilometri da Napoli, il Reale Opificio di Pietrarsa fu costruito nel 1842 sul suolo di una vecchia batteria a mare. Nel 1860 era la fabbrica metalmeccanica italiana che occupava più personale: 1050 persone nei suoi ruoli al giugno 1860 (tre mesi prima dell’arrivo di Garibaldi a Napoli). 820 “artefici paesani” e 230 “operai militari” vi lavoravano mentre l’Ansaldo a Genova contava non più di 480 operai e la FIAT a Torino non era ancora nata.

Pietrarsa fu un esempio ammirato all’estero e imitato in seguito nel Regno per la formazione che riuscì ad assicurare agli operai,per la qualità della produzione e per essere riuscita a ridurre il gap tecnologico che il Regno stesso aveva nei confronti dell’Inghilterra e degli altri Stati più industrializzati.

Su una superficie di 34.000 mq.,lo stabilimento possedeva diverse macchine a vapore (163 HP la potenza complessiva), un’officina per locomotive con 2 grandi gru a bandiera,24 torni, 5 pialle, 2 barenatrici, 5 trapani verticali, 2 macchine per  viteria e una motrice a vapore da 20 HP; un’officina di artiglieria con 14 torni paralleli, 4 limatrici, una  macchina per rigare i cannoni e una motrice a vapore da 8 HP.

Vi erano incluse ancora un’officina per la costruzione di modelli,una fucina con 30 fuochi, una fonderia con 6 fornaci per ghisa, una piccola fonderia per bronzo, l’officina per la costruzione  di caldaie con 2 gru, un trapano, una  cesoia per lamiere di grande spessore, una punzonatrice, una pressa idraulica, 2 curvatrici per lamiere ed un forno per riscaldarle.

La fonderia dei proiettili aveva un forno a riverbero, 4 fornaci e 3 magli a vapore per stampaggio; la grande ferriera(aggiunta al complesso dal 1853 e chiamata “Officina Ischitella”)aveva macchine a vapore da 100 HP con 12 forni per il ferro grezzo, 4 forni di riscaldo e 5 treni di laminazione per profilati e rotaie (3).

A Pietrarsa si producevano svariatissime opere in ferro ricavandolo “di perfettissima qualità e di grosse dimensioni dal ferro acre dei proiettili inutili”, si producevano caldaie, motrici e macchine a vapore di diversa potenza (per pirofregate come l'”Ettore Fieramosca”, di 300 cavalli o per altre officine)e locomotive complete con sistema “Stephenson” (fino al 1853 ne erano state prodotte 6: “Pietrarsa”, “Corsi”, “Robertson”, “Vesuvio”, Maria Teresa”, “Etna”; 20 complessivamente fino al 1860) (4).

A tal proposito, esempio dello spirito di competizione esistente nel Regno  la richiesta fatta a Ferdinando II dalle officine delle Stazioni di Napoli, specializzate nelle riparazioni: per dimostrare di essere capaci di costruire una locomotiva come l’opificio di Pietrarsa, chiesto il permesso al re, costruirono la locomotiva “Duca di Calabria” (5).

Per le ferroviea Pietrarsa si producevano anche rotaie(era l’unico stabilimento italiano a produrle), carri-merci,cuscinetti, manufatti di acciaio e ruote per locomotive.

Vari i macchinari e gli oggetti in produzione e tra essi in evidenza torni, spianatrici, fucine portatili, magli a vapore, cesoie,foratrici, gru, affusti dicannone, apparecchiature telegrafiche o granate, bombe, pompe, fusioni in bronzo, ferri, laminati e trafilati o parti di ponti in ferro (napoletano, del resto, era stato il primo ponte in ferro costruito in Italia).

200 le cantaia di acciaio prodotte ogni giorno (5400 tonnellate all’anno); di oltre un milione di ducati gli investimenti complessivi (6).

Numerose erano state anche le fusioni in bronzo per statue di regnanti e principi.

Dopo le sue numerose e frequenti visite, vi fu realizzata anche una grande statua in ghisa raffigurante lo stesso re Ferdinando II di Borbone che oggi si può ammirare ancora nello spazio all’esterno degli antichi capannoni (attuale sala-convegni?del Museo Ferroviario).

Pietrarsa Statua Ferdinando II#001

Su una lapide sottostante si può ancora leggere:

“FERDINANDO II

PIO MAGNANIMO AUGUSTO

FRA TANTE OPERE GRANDI

QUESTE MECCANICHE OFFICINE

EMULATRICI

DELLA INDUSTRIA STRANIERA

CREO’ NEL 1842

COME RICORDANZA ED OSSEQUIO

FUSERO IL MONUMENTO

MDCCCLIII”

Presso le stesse officine si trovava un’altra lapide che sintetizzava lo spirito che aveva animato il suo fondatore (prestigio e autarchia) e che aveva costituito la premessa e l’obiettivo della loro fondazione:

” PERCHE’ DEL BRACCIO STRANIERO

A FABBRICARE LE MACCHINE MOSSE DAL VAPORE

IL REGNO DELLE DUE SICILIE

PIU’ NON ABBISOGNASSE

E CON L’ISTRUZIONE DEI GIOVANI NAPOLETANI

TORNASSE TUTTA LA NOSTRA ANTICA ITALIANA DISCOVERTA

QUESTA SCUOLA DI ALLIEVI MACCHINISTI

FERDINANDO II

NELL’ANNO XI DEL REGNO

GOVERNANDO LE ARMI DOTTE

CARLO FILANGIERI PRINCIPE DI SATRIANO FOND “…

Dopo qualche anno pagammo con l’unità italiana tutto questo orgoglio…

Le ultime statistiche dello Svimez e dell’Istat sono chiare e oggettive:

esistono due Italie e nessuno (classe dirigente locale o nazionale che sia) ha fatto e fa nulla. Ecco perché in queste giornate, da circa 20 anni e quando nessuno, purtroppo, neanche li conosceva, il Movimento Neoborbonico preferisce ricordare, con ricerche e preghiere, i “primi martiri della storia operaia non solo italiana”: quelli delle grandiose officine di Pietrarsa, massacrati nell’agosto del 1863 solo perché volevano difendere un lavoro che fino a quando c’erano i Borbone conservavano e che avevano perduto o stavano perdendo in una storia tragica che è più che mai attuale in questi giorni.

Nel Fondo Questura dell’Archivio di Stato di Napoli, foglio 24,  è trascritto l’elenco completo dei morti  (che secondo alcune fonti arrivarono addirittura a 9) e dei feriti coinvolti negli incidenti: “Luigi Fabbricini-morto-  Aniello Marino-morto-, Domenico Del Grosso-morto ai Pellegrini-  Aniello   Olivieri-morto  successivamente,  Aniello  De   Luca,   Giuseppe  Caliberti,  Domenico Citara, Leopoldo  Alti,  Alfonso   Miranda,  Salvatore  Calamazzo,  Mariano  Castiglione,  Antonio   Coppola, Ferdinando Lotti, Vincenzo Simonetti-feriti”.

Sono  questi  i  nomi dei primi martiri  della  storia  operaia   italiana.

(G. De Crescenzo, Le industrie del Regno di Napoli, 2002;G. De Crescenzo, “Noi, i Neoborbonici. Storie di orgoglio meridionale”, 2016).

Pietrarsa Esterno museo#001

APPROFONDIMENTI

IL RACCONTO DELLA STRAGE DAI DOCUMENTI DELL’ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI (GENNARO DE CRESCENZO, NAPOLI, 2002).

PIETRARSA 1863: LE PRIME VITTIME DELLA STORIA OPERAIA

DALLE OFFICINE BORBONICHE AL MASSACRO

All’estate  del  1863  è  legato  un  episodio  storico   poco   conosciuto e poco raccontato ma che risulta ancora  importante,   significativo e per certi aspetti addirittura attuale.

Tra  le  carte del “Fondo Questura” dell’Archivio di  Stato  di   Napoli  (fascio  16, inventario 78,1)  possiamo  ricostruire  i   fatti  di  Pietrarsa  ed analizzarli al di  là  della  cronaca   poliziesca,  pure  interessante, con  documenti  oggettivamente   validi ed in gran parte inediti.

Dopo  l’unità  d’Italia l’imprenditore  Jacopo  Bozza  comprò   la fabbrica di Pietrarsa.

Il  suo acquisto era stato favorito dalla svendita dello  Stato   che  intendeva  così continuare l’opera  di  ridimensionamento   della  struttura  produttiva  iniziata con  le  relazioni  già   citate di Sebastiano Grandis che avevano messo in evidenza solo   i suoi aspetti negativi.   L’affare  fatto da Bozza fu contraddistinto  dall’ambiguità  e   dalla  scorrettezza: una lettera anonima dell’autunno del  1863   (fogli 94-96 bis, fascicolo 4) ci rivela che il Bozza, uomo  di   fiducia  dello  Stato,  “era abituato a  vessare  i  boscaioli”   costringendoli a vendere gli alberi per fare i pali delle linee   telegrafiche.

Successivamente  fu  accusato anche di  affitti  e  concessioni   irregolari  relativi  ad una “società nazionale  di  industrie   meccaniche”, insieme ai nobili Luciano Serra duca di  Cardinale   ed  al barone Maurizio Barracco (cfr. “Il Roma” 9 agosto  1863;   “La  Campana”  23  agosto  1863 ed i  fogli  31-37  del  fascio   citato).

“Era  questo  l’uomo  della scienza e della fede  al  quale  si   concedeva  lo stabilimento di Pietrarsa? -si  chiede  l’anonimo   autore della lettera – A lui si concedeva il primo stabilimento   del suo genere che esisteva in Italia, il più grande e, per le   sue specialità, il migliore! Stabilimento ch’esiste in  Napoli   e  non  altrove  e  che  sostentava  700  famiglie  di   operai   napolitani e non d’altrove [sottolineato nel testo] e Pietrarsa   si  cedeva  e dava a Jacopo Bozza? L’eccidio  di  Pietrarsa  fu   forse  in  cambio al lavoro promesso a  questo  nostro  popolo?   Poveri  operai! E’ questo il lavoro delle opere  pubbliche  che   per sostentarle si elevava […]. Ci dessero e cedessero i loro   stbilimenti, invece di mandare nei nostri paesi cotesti vampiri   ad  ammorbarcene  fino  alla  nausea!!”-  conclude   amaramente   l’anonimo   estensore   di  questa   lettera   che   sintetizza   efficacemente quello che si stava verificando.

Il  Bozza  il 23 giugno 1863 promette di impiegare  800  operai   (dei 1050 del 1860) ma già agli inizi di luglio lo scambio  di   lettere “urgentissime e riservate” tra stabilimento e  questura   si  era  fatto  più frequente perché  iniziava  a  salire  la   tensione   (“muovetevi   artefici,  che  questa   società   di   ingannatori  e  di ladri con la sua astuzia  vi  porterà  alla   miseria”:  sono  le  prime  scritte  apparse  sui  muri   dello   stabilimento).

Bozza dichiara che il lunedì successivo non può fare scendere    a  lavorare  tutti gli operai i quali “avrebbero  continuato  a   percepire  la metà della loro paga come da qualche  tempo  son   trattati  pel  conto  del  governo”  (fogli  4-5-6).

E andrebbero sottolineate queste parole  perché  rappresentano l’inizio  della fine di Pietrarsa e dell’economia  meridionale:   questa metà della paga concessa dal governo è la prima  forma   di   cassa-integrazione   statale,  la  prima   forma   di   un   assistenzialismo  passivamente  dannoso e diffuso  che  avrebbe    spesso  accompagnato  l’economia meridionale anche  negli  anni   successivi.

Il 31 luglio del 1863 gli operai erano appena 458.

La  tensione cresce ancora, alimentata ad arte dal Bozza e  dai   suoi. Si promettono pagamenti che non avvengono e si continuano   a minacciare licenziamenti (fogli 22-23-27).

E  arriviamo così al 6 agosto.

Da  un rapporto del delegato di pubblica sicurezza di  Portici:   “6  agosto 1863; a circa le due pomeridiane di questa  giornata   mi  è pervenuto rapporto dal capo contabile  dell’opificio  di   Pietrarsa, sig. Zimmermann che chiede cinque sei uomini  subito   perché  gli  operai  volevano un aumento di  stipendio  ma  ne   vengono licenziati 60. Ma dopo poco accorre atterrito per  dire   che  non  bastavano  ed  occorreva  un  battaglione  di  truppa   regolare  perché,  suonando  una campana,  come  ad  un  segno   convenuto,  anche  gli  operai delle altre  officine  si  erano   portati   nello   spiazzo   dell’opificio   in    atteggiamento   minaccioso”.

Il delegato, allora, chiama l’arma dei bersaglieri ed il signor   Maggiore Blancardi “disponeva che una mezza compagnia comandata   dal   Capitano  Martinelli  e  dal   Sottotenente   Cornazzoni,   circondasse  il  locale e questa, pervenuta al  primo  cancello   d’entrata,  si è trovata di fronte alla massa degli operai  la   quale,  per  quanto  mi si asserisce,  ha  diretto  delle  voci   insultanti  ai  bersaglieri  e si atteggiava  a  minacce  nello   intendimento di impedire il passaggio alla truppa così che  la   forza  ha dovuto calare le baionette per farsi strada,deplorandosi la morte de’   due  artefici  oltre  altri dodici feriti dei  quali  tutti  si   osservano  i nomi al margine del presente rapporto” [in  nota   su margine destro si dichiara che “di colpo di baionetta  hanno   morti due artefici et undici feriti”].

Lo stesso delegato continua affermando che a quei fatti non erano  state   estranee “suggestioni avverse allo     attuale governo  poiché   sulle  pareti  prossime    alla cloaca  degli  operai  veggonsi   segnate  con  carbone   le  seguenti   parole    [sottolineate,   foglio  26]:    “Morte  a  Vittorio Emanuele, il  suo  Regno  è   infame,  la  dinastia   Savoja  muoja per  ora  e  per  sempre”   (accanto,   un’altra  scritta recitava: “Viva  il  governo  de’   preti  e duri  sempre in Italia il governo Papale”).

La  relazione si conclude riportando che dalla  “voce  pubblica   si  erano  dati  per estinti i capi  ed  autori  dei  disordini   Fabbricini e Marino, feriti D’Amato Vincenzo di Resina, Giorgio   Martucci  di  San Giorgio a Cremano,  Giuseppe  Farino,  Pietro   Canini,  Ferdinando Russo di San Giovanni a Teduccio e  Giacomo   Marino.   I   feriti   sono   stati   immediatamente    spediti   all’Ospedale  dei Pellegrini ed i due estinti  giacciono  nello   stabilimento, in attesa del giudice di Barra”.

Questa  la  fredda  (e  ovviamente  poco  obiettiva)  relazione   ufficiale nella versione “governativa”.

Sul foglio 24  è trascritto invece l’elenco completo dei morti  (che secondo alcune fonti arrivarono addirittura a 9) e dei feriti coinvolti negli incidenti: “Luigi Fabbricini-morto-  Aniello Marino-morto-, Domenico Del Grosso-morto ai Pellegrini-  Aniello   Olivieri-morto  successivamente,  Aniello  De   Luca,   Giuseppe  Caliberti,  Domenico Citara, Leopoldo  Alti,  Alfonso   Miranda,  Salvatore  Calamazzo,  Mariano  Castiglione,  Antonio   Coppola, Ferdinando Lotti, Vincenzo Simonetti-feriti”.

Sono  questi  i  nomi dei primi martiri  della  storia  operaia   italiana.

Altre  fonti  e altre testimonianze,  comunque,  vengono  fuori   nonostante il regime poliziesco piemontese.

I  giornali  ufficiali,  come  tutti  i  giornali   “ufficiali”   ignorano colpevolmente il fatto o minimizzano.

Uniche versioni contrastanti quelle di due giornali minori: “Il   Pensiero”  e  “La Campana”.

Questo il racconto dei fatti del Pensiero di domenica 7 agosto:   “Giovedì Napoli era gettata nello squallore: un suo  quartiere   era   bagnato  di  sangue  cittadino,  11  innocenti   venivano   trapassati  dal  ferro  italiano;  la  città  si  scuote,   si   commuove,  maledice ai carnefici della patria e i  giornali  di   Napoli,   tranne  pochissime  onorevoli   eccezioni,   tacciono   vergognosamente o se parlano lo fanno con lo scopo infernale di   travisare  i  fatti, di metterli sotto un punto di  vista  più   benigno   […]   onde  diminuire  le  colpe  di   un   governo   svergognato. I  giornali  del  governo avevano scritto che  si  tirò  sugli   operai  in  conseguenza  di  grida  sediziose  e  ciò  è   un   mendacio”.

Il “Pensiero” riporta allora la relazione di un uomo dello stesso   governo   e  successivamente  identificato  come  lo   scrivano   contabile  Antonino  Campanile:  “Verso  le  tre  e  mezzo  una   Compagnia  di bersaglieri, senza intimazione veruna e come  per   ispirazione  satanica, obbedienti ad un segnale di  trombe  col   fuoco  e con le baionette li hanno caricati…al massacro  pose   fine  il coraggioso intervento del vicedirettore di  Pietrarsa,   il  capitano  Federico Ferrero che, indossato  il  berretto  di   ufficiale,  si  mise tra bersaglieri e operai… ma  restò  un   mucchio  di  nove  corpi  stesi  a  terra  e  due  esanimi  del   tutto…”.

Il  piccolo giornale “La Campana del Popolo” pubblica addirittura,  l’8   agosto,  la “relazione cerusica”, avendo una  redazione  vicina   agli  Ospedali dei Pellegrini (i cronisti erano accorsi al  suono   della campana dell’ospedale che segnalava a quei tempi l’arrivo   dei  feriti).

Si parla inequivocabilmente di palle di fucile e di una  strage   “inumana”: tra i feriti (7 in pericolo di vita) c’era anche  un   ragazzo  di  14  anni  colpito come  molti  altri  alle  spalle   (perché  evidentemente  in fuga);  Domenico  Citale  riportava   “ferite  di punta e taglio passanti dalla regione  superiore  e   dall’esterno  della  coscia  all’interno, la  ferita  lunga  un   pollice  larga  un mezzo; Olivieri era invece già  morto  “per   palle di fucile al petto”; Del Grosso aveva riportato ben sette   ferite  in  parti  vitali  del corpo   a  dimostrazione  di  un   accanimento  assassino  (Relazione  dell’Arciconfraternita   ed   Ospedale  della  Santissima  Trinità  dei  Pellegrini  e   dei   Convalescenti, Napoli 9 agosto 1863).

Altro   che  bersaglieri  provocati  dagli  operai   e   operai   (disarmati) che si spingono sulle baionette…

Da  sottolineare la presenza in queste carte di un  personaggio   ancora oggi celebrato con piazze e strade a lui intitolate:  il   famoso  sindaco  Nicola  Amore, questore  durante  i  fatti  di   Pietrarsa.

“Colpa  di Bozza e dei filoborbonici”, “fatali e  irresistibili   circostanze”:  definisce così il massacro il  questore  Nicola   Amore in una relazione al prefetto cercando nello stesso tempo di  corrompere  e di minacciare inutilmente il  funzionario   Antonino  Campanile, testimone loquace e scomodo, sottoposto  a   procedimento   disciplinare  e  poi  destituito  dopo  le   sue   dichiarazioni ai giornali (fogli 31-37).

Qualche  giorno dopo il massacro il capo  contabile  Zimmermann   scrive  per conto di Bozza al questore per ottenere la riapertura  dello   stabilimento: “un bisogno  molto  sentito  di  ordine   pubblico”;  gli chiede pertanto di mantenere le promesse  e  di   provvedere  al  pagamento delle giornate di  sciopero,  con  un   tipico “intervento riparatore”.    Segue  poi  una  fase  in cui si  cercò  di  marginalizzare  e   minimizzare l’episodio, dialettizzando e criminalizzando quelli   che   venivano  definiti  pochi  “provocatori”   e   “mestatori   borbonici”, “elementi di disordine da eliminare” per consentire   il ritorno alla normalità (fogli 41 r.v., 48 r.v.).

Gli operai, sempre più isolati, organizzano una efficace forma   di   propaganda  facendo  diverse  copie  di  un   quadro   con   l’illustrazione dei fatti “portandolo in giro sotto pretesto di   raccogliere denaro per le vedove, per i feriti e per i funerali   delle  vittime” (la Polizia cercherà di sequestrarne tutte  le   copie per diversi giorni) (foglio 48 r.v.).

Il  13 ottobre i proprietari licenziano 262 operai perché  “il   governo  col nuovo contratto per nulla ha considerato la  sorte   degli operai che rimarranno senza lavoro” (foglio 66).

Dopo inutili interventi e  finti  interessamenti  il  governo   ridurrà le commesse di Pietrarsa decretandone praticamente  la fine.  Da  pochi  anni quella che era stata la  più  grande  fabbrica   metalmeccanica   italiana,   simbolo   di   attività   e    di   produttività fino al 1860, è diventata un museo ferroviario.

Un piccolo e dimenticato monumento ricorda Domenico Del Grosso, Aniello Marino, Luigi  Fabbricini   e   Aniello   Olivieri,   napoletani, morti per difendere il proprio lavoro.

(G. De Crescenzo: ricerche aggiornate in G. De Crescenzo, Noi, i neoborbonici, 2016).

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Evento Borbonico a Ponza

Ponzese benemerito#001

Sarà il Grand Hotel Santa Domitilla di Ponza – il prossimo 2 Agosto – lo splendido scenario della serata per la consegna del Premio Ponziano Benemerito giunto quest’anno alla sua sesta edizione.

Dopo un anno di sosta, il Premio “Ponziano Benemerito”, riprende il suo cammino per riconoscere e premiare quei ponzesi e ventotenesi, nativi e non, che hanno profondamente amato queste isole e la loro gente.

Il premio – organizzato dall’Associazione Cala Felci – viene conferito a persone fisiche o giuridiche che – con lo stesso spirito di sacrificio dei primi Coloni Borbonici delle isole Ponziane – con il loro lavoro, svolto con dedizione e competenza hanno contribuito a migliorarne la qualità della vita.

Il premio, che nasce nel 2008, nelle cinque edizioni precedenti ha premiato persone di vari settori dell’universo isolano. Dalla cultura allo sport, dalla pesca alla marineria, dai pionieri del turismo a quelli della valorizzazione degli antichi sapori dell’isola. Nomi che in alcuni casi hanno valicato l’orizzonte isolano, come il campione olimpico di spada Sandro Cuomo o lo scrittore Ernesto Prudente.

Mentre sui nomi dei premiati di quest’anno c’è riserbo da parte della Giuria, che li renderà noti solo alla vigilia dell’evento.

La cerimonia di premiazione avverrà nel corso di una serata che prevede un concerto napoletano del maestro chitarrista Umberto Mattiello e si concluderà con un brindisi in onore dei neo Ponziani Benemeriti con vino di Ponza e una degustazione di lenticchie di Ventotene.

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Il Principe Carlo di Borbone dichiara

Intervista di S.A.R. Carlo di Borbone 

rilasciata al Corriere del Mezzogiorno

pubblicata il 28 giugno 2016

Carlo Principe ufficio#001

«Non ho mai rinunciato alla Corona»

Tour con la famiglia fra le bellezze artistiche partenopee. «È mio dovere promuovere l’immagine di Napoli e del Sud». E sui diritti dice: «Uguaglianza fra uomini e donne»

di Anna Paola Merone

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Con l’Atto di Roma, la Casa di Borbone delle Due Sicilie ha abbandonato il principio della legge Salica, che esclude le figlie femmine dall’ordine di successione, e ha adottato la regola delle primogenitura assoluta. Carlo di Borbone ha sottoscritto il documento sottolineando che la Real Casa deve andare in questo senso «se ambisce a poter pretendere di ritrovare la sua sovranità e di esercitarla nel rispetto del diritto e dei principi riconosciuti dalla comunità internazionale». E di fatto ha indicato sua figlia Maria Carolina come erede al trono.

La «rigorosa parità tra uomini e donne» non esiste in molti ambiti: finanche a Hollywood le attrici lamentano una disparità di trattamento rispetto ai colleghi. Lei ci ha sempre creduto?

«Io sono cresciuto in una famiglia in cui le donne hanno sempre rivestito un ruolo di primissimo piano. Due esempi per tutti: l’ultima regina delle Due Sicilie — la giovane, bella ed eroica Maria Sofia, la famosa “eroina di Gaeta” — e Maria Carolina, che seppe tener testa, come ha scritto Le Figaro qualche giorno fa, “ai rivoluzionari francesi e a Napoleone”. La questione della parità è ovviamente essenziale nella società contemporanea, ma prima di pensare alla “parità”, è fondamentale imporre l’uguaglianza tra uomo e donna. Ed è questo il senso della mia decisione. Il diritto europeo impone una rigorosa parità tra uomini e donne nell’esercizio delle funzioni pubbliche. E la responsabilità di un Capo di Casa Reale è quello di mantenere viva la tradizione, ma anche saper stare al passo con i tempi, rispettando il diritto internazionale. E proprio per sottolineare questo maggiore impegno e responsabilità data alle donne della mia famiglia, poche settimane fa ho deciso di nominare mia sorella Beatrice Gran Prefetto dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio, prima donna a ricoprire un ruolo di questo livello nel mondo degli Ordini Cavallereschi».

Le giovani principesse, che accompagnano lei e sua moglie in questi giorni napoletani, quali responsabilità hanno?

«Mia moglie ed io abbiamo da sempre cercato di educare le nostre figlie, Maria Carolina, duchessa di Calabria e di Palermo (erede al trono ndr), e Maria Chiara, duchessa di Capri, al rispetto del prossimo. Fin dalla più tenera età, abbiamo fatto in modo che ci seguissero nei nostri viaggi in tutto il mondo, dove sono entrate in contatto con persone di diverse estrazioni e culture. Questo le ha aiutate a capire l’importanza dello studio delle lingue per poter comunicare con tutti senza intermediazioni. Oggi parlano correntemente sei lingue — e auspico che imparino presto anche il napoletano — e hanno sviluppato un carattere che permette loro di parlare in pubblico senza timori o ansie. Entrambe ricoprono la carica di Children Ambassador del progetto Passion Sea, per la salvaguardia dei mari e delle specie a rischio di estinzione».

Come potrebbe la Real Casa di Borbone della Due Sicilie, come si indica nell’Atto di Roma, «ritrovare la sua sovranità ed esercitarla» ?

«La mia famiglia non ha mai rinunciato ai diritti sulla corona delle Due Sicilie. Da oltre venti anni, fin da quando seguivo mio padre Ferdinando e fin dalle prime delle tante manifestazioni di affetto verso di noi, vedo cose bellissime e cose meno belle. Napoli e il Sud sono dei luoghi carichi di ricordi, di spunti di riflessione e anche di amarezza per me e per la mia famiglia. Dal lontano 1994 ad oggi, noto un affetto crescente verso di noi e ne sono consapevole e fiero. Per me quell’affetto rappresenta un ulteriore motivo per continuare a lavorare anche con gesti simbolici di beneficenza o con borse di studio o ad essere sempre più presenti con la partecipazione ad eventi o appuntamenti tradizionali. In questa ottica abbiamo previsto borse di studio e abbiamo patrocinato una mostra didattica sui 300 anni di Carlo di Borbone, il re dei primati e dell’orgoglio, uno dei re più importanti della storia non solo italiana. La conoscenza della propria storia e del patrimonio di beni che ci ha lasciato, del resto, è fondamentale per ritrovare la propria identità e può essere determinante per favorire un vero sviluppo del Sud, uno sviluppo atteso da 150 anni».

Insomma il suo ruolo in questo articolato scenario qual è?

«Alla luce di tutte questa considerazioni, ritengo che oggi il mio dovere sia quello di promuovere l’immagine della città di Napoli e dei meravigliosi territori del Meridione d’Italia».

Sua moglie Camilla è, a sua volta, assorbita dalle attività dell’ordine Costantiniano.

«Mia moglie si dedica anima e corpo alla Real Casa e alle opere dell’Ordine Costantiniano, e mi sento davvero ringraziare tutti i Cavalieri e le Dame dell’Ordine per il loro impegno. Questo lato del carattere della principessa è meraviglioso, si prodiga costantemente per gli altri e lo fa con gioia. Nel mese di marzo ha supportato la campagna della “Un women for peace association’’, l’importante associazione delle Nazioni Unite che da anni guida la lotta contro la violenza sulle donne in tutto il mondo, anche attraverso manifestazioni simboliche come la marcia per la Pace, che si è svolta lo scorso 5 marzo a New York. Anche le mie figlie erano presenti all’evento e si sono mostrate fin da subito sensibili alla campagna, così come alle molte iniziative benefiche che svolgiamo attualmente ovunque nel mondo e in particolare nel Sud Italia».

Le sue figlie sono consapevoli delle molte sopraffazioni che colpiscono le donne ad ogni latitudine?

«Sì e hanno compreso che la mia decisione di porre definitivamente termine all’uso della legge salica, aprendo loro la successione dinastica, non è stato solo un segno tangibile dell’amore che provo per loro e mia moglie, ma anche per il bene della nostra stessa dinastia, mettendo così fine ad una ingiustizia perpetrata nei confronti delle donne nel corso dei secoli».

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Sulle teorie di Cesare Lombroso

Lombroso Cesare#001

LOMBROSIANAMENTE DISCORRENDO

di Antonio Pulcrano

“Salvatore Misdea”, è il titolo di un volume pubblicato qualche tempo fa dai ricercatori Domenico Romeo e Francesco Antonio Cefalì, dall’esauriente sottotitolo: “1884: Follia criminale o determinazione di un soldato del Sud Italia?”, domanda che esplica il senso stesso del libro.

Gli Autori, magistralmente, interpretano le fasi dello svolgimento del processo, a Napoli, dopo che il Misdea, soldato del Regio Regno Sabaudo, Calabrese di Girifalco, provocato e offeso ripetutamente, uccide in un impeto d’ira alcuni suoi commilitoni, ferendone altri, nella caserma della fortezza di Castel dell’Ovo, la sera di Pasqua dell’anno 1884.

La disanima del processo, nel volume, è ampia e particolareggiata, iniziando con la trascrizione di tutte le udienze, degli interrogatori in aula, degli interventi dei periti di parte e degli avvocati difensori. Tutto il volume, però, ha, a mio parere, il fine ultimo non di raccontare un qualsiasi evento omicidiario dell’ ‘800, ma quello di dimostrare come un Cesare Lombroso, a lungo ritenuto, erroneamente, il fondatore dell’Antropologia criminale, perito della difesa (sic!), nominato dal Tribunale, “manovra” tutto il dibattimento in modo da dimostrare una follia criminale congenita e razziale nel Misdea, basando le sue supposte diagnosi scientifiche su elementi craniali, fattezze del viso, comportamenti dei familiari e presunta discendenza etnica. Ebbene, queste teorie, reclamizzate ed acclarate come verità scientifiche, all’epoca, hanno fatto epoca, inculcando nell’immaginario collettivo una diversificazione razziale tra Nord e Sud Italia, che in realtà non esiste e mai è esistita. Oggi, le teorie del Lombroso e di accoliti suoi discepoli, sono completamente confutate dalla scienza moderna, eppure certi suoi concetti sono così radicati in ancora molti denigratori seriali delle popolazioni meridionali, che spesso si parla (o meglio, si sproloquia) di differenti “mentalità”, differenze che, invece, sono date esclusivamente (ahimé) dalla consistenza media dei rispettivi conti in banca.

Nel 1882, Lombroso fu radiato, per le sue cervellotiche affermazioni, dalla Società Italiana di Antropologia ed Etnologia. Egli svolse ricerche sul “cretinismo”, anche qui basandosi su comportamenti legati alla fisiognomica, e, lui proveniente dal Veneto, per compiacere i Savoia quando la Regione ancora non era parte dell’Italia unita, pontificò persino che il cittadino veneto medio (quando deviato verso questa patologia) rappresentava il “cretino” tipico per eccellenza. Nel 1876, inaugurò a Torino (dove sennò?!) un museo di psichiatria e criminologia, poi chiuso per un periodo lunghissimo, ma riaperto nel 2009, sempre intitolato, è questo lo scandalo, nonostante la dimostrata nullità scientifica dei suoi studi, a Lombroso, cioè a Marco Ezechia Lombroso, detto Cesare. Il museo contiene 684 crani e 27 resti scheletrici umani, oltre a 183 cervelli umani ed una moltitudine di crani e resti animali, corpi di reato, maschere mortuarie, manufatti e disegni, abiti di briganti, e lo scheletro dello stesso Lombroso. Quale apologia dell’orrido e del macabro, specie se consideriamo che il nome di Lombroso, volente o nolente, è ancora fortemente accostato a ricerche razziali antimeridionali, ormai confutate da tutti, ma assuefatte al pensiero corrente del nordico sparasentenze di turno. Oltre cento città, hanno chiesto la chiusura definitiva di tale sito, come: Assisi, Grosseto, Napoli, Bari, Crotone, Opera, Cosenza, Formia, Lavello, Cerveteri, Aversa, Calitri, Matera, Velletri e tantissime altre. Molti sono stati i ricorsi alle Magistrature, di svariati Comuni, per riavere i resti di propri concittadini “esposti” in questo inimmaginabile luogo e tante sono le cause ancora in corso. Il cranio di Giuseppe Villella, Calabrese, ha avuto la poco nobile funzione di fermacarte sulla scrivania del Lombroso per svariati anni: quale offesa, quale vilipendio, quale macabra affermazione di soverchia superiorità in questi gesti efferati, che mai più, nessuno di noi, dovrà tollerare. Arcidosso (Toscana), ha ottenuto, nel 1991, la restituzione degli effetti del predicatore David Lazzaretti, dal Nostro ritenuto un pazzo. Per gli altri “reperti”, in maggioranza meridionali, l’iter è più lungo e difficile (chissà perché?!).

Quindi, dato che l’imputato Misdea Salvatore, è “assassino perché imbecille morale”, condannato da “forma delle orecchie, rossore del viso, della forma del cranio, dall’appiattimento delle tempie tipico dei microcefali atavici calabresi, dagli occhi a mandorla che lo rendono simile ad un orientale”, la Corte lo condanna… alla pena di morte, previa degradazione. E giustizia è fatta! Il 21 giugno 1884, Misdea venne fucilato e lo spappolamento del cranio non ne permise la decapitazione e la “conservazione” tra i macabri reperti del Lombroso.

Conclude il volume un capitolo di desunzioni criminologiche e considerazioni investigative, oltre alla riproduzione di documenti, lettere e articoli dell’epoca.

Chissà, concludiamo noi, se oggi questo pseudoscienziato, produttore di scienze pseudotali, avrebbe mai misurato il cranio di un Pirandello o di un Mennea (atleta dalle sei lauree – Romeo e Cefalì, nel volume, raccontano l’aneddoto di quando Gianni Brera, giornalista sportivo, palpò il cranio di Mennea, ancora vivo per fortuna, chiedendosi come potesse un meridionale raggiungere quelle mete nello sport. Se non è retaggio lombrosiano questo?! Oggi nessuno sa chi era Brera, mentre Mennea è nella leggenda). Chissà se avrebbe mai misurato il cranio di un Sammartino, di un Pitagora o di un Giordano Bruno, oppure, oggi, di un Riccardo Muti, per fare solo qualche sporadico esempio. Alcuni decenni dopo, altri pazzi visionari, prenderanno ad esempio di tutti i mali del mondo altre razze ed altre etnie, fino a teorizzarne lo sterminio totale. Questi furono detti nazisti e sono condannati in ogni parte del globo; chi ha sterminato meridionali in nome di false idee, suffragato da false teorie, oggi ha pomposi e osannanti monumenti nelle nostre stesse piazze.

L’Università Statale di Torino, se vuole continuare a mantenere un museo legato alla Criminologia, vera scienza riconosciuta, ( l’antropologia criminale è considerata una bufala, una non/scienza), renda i crani dei calabresi ai paesi d’origine, cambi nome al museo, lo dedichi ad uno scienziato vero, serio e riconosciuto, e, solo allora, l’alone macabro antimeridionale di questo sito degli orrori verrà spazzato via. E, forse, con tutto ciò, anche le farneticanti menzogne cui siamo quotidianamente oggetto, che hanno fatto del Sud la negatività per eccellenza. Per tutto questo, perché bisogna finalmente rendere i conti della nostra Storia, questo museo, così com’è, deve chiudere.

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No a Comacchio

NO a Comacchio come succursale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. No al saccheggio dei tesori di Napoli.

Museo Napoli

E’ stato siglato un accordo tra il Palazzo Bellini di Comacchio e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che prevede il trasferimento di una parte dei tesori archeologici di Pompei ed Ercolano dal deposito napoletano all’area espositiva lagunare.
In linea con le direttive del Ministero dei Beni Culturali, Paolo Giulierini, direttore del Museo Nazionale partenopeo, ha ben pensato di rendere fruibile il nostro patrimonio, non esposto per carenza di spazi, in una città del nord. L’accordo prevede un ‘prestito’ di due anni, che potrà essere rinnovato (salvo trasformarsi poi in donazione).

Possibile che Napoli debba esportare le sue ricchezze, sottraendole alla sua gente?

Si Chiede al Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, al Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, al sindaco di Napoli Luigi de Magistris, ricordando che l’amministrazione è proprietaria di Palazzo Fuga, al direttore del Mann Paolo Giulierini di attivarsi per ovviare al rischio del rinnovo e di ostacolare qualsiasi futuro trafugamento celato da necessità.

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Luigi Farinaccio

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Luigi Farinaccio è un cantautore molisano, nato in Belgio. Dopo gli studi in Conservatorio nella classe di chitarra, decide gradualmente di spostare la sua creatività verso il pop- rock. Ottiene diversi riconoscimenti come finalista nazionale nei più importanti concorsi per cantautori tra cui il “Premio Pigro” – Omaggio ad Ivan Graziani presso il Teatro comunale di Teramo; il Premio “Augusto Daolio” città di Sulmona; il Premio Giovanni Paolo II”- sezione poesia, Pompei (NA). Viene invitato a suonare in cartelloni di prestigio come: il “SanremOff” nel 2010 e 2011; il Festival Letterario internazionale “Il Dio di mio padre” – Omaggio allo scrittore John Fante; l’evento “SPQR Sport Day” svoltosi nel 2012 sul palco dei Fori Imperiali di Roma; “Per chi suona la campana” presso il teatro “Arciliuto” di Roma nella stagione 2014/15 e 2015/16; “Brussellando 2015” Radio Alma – Bruxelles; Tour “Miss Italia” 2015; “Musica e Poesia” 2016 – Enoteca Letteraria Roma.

La prossima tappa del “Tempo imperfetto” tour 2016 sarà venerdì 22 luglio a Ripalimosani (CB) alle ore 21.30 presso il Risto Pub “Pensavo Peggio” situato in Piazza San Michele.

Luigi Farinaccio si esibirà da solo in acustico chitarra, voce e armonica.
Durante la serata oltre al menù pizzeria, sarà possibile degustare anche piatti prelibati a base di carne o baccalà!
Info e prenotazioni:
0874/ 39529
320/ 9449652

Ingresso Libero

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La storia del Sud, le imprese del Sud

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Doppio incontro nelle Calabrie il 28 e il 29 luglio a cura di Fondazione Il Giglio, Progetto CompraSud, Associazione Culturale Due Sicilie Gioiosa Jonica (RC), Proloco di Monterosso Calabro (VV). GIOVEDÌ 28 LUGLIO 2016, ORE 19:00, BOVALINO SUPERIORE (RC), La Tenuta del Conte Ruggero, Via Vecchia Mulattiera, 9: “La storia del Sud, le imprese del Sud”; Marina Carrese (Fondazione Il Giglio e Mariolina Spadaro (Università Federico II) presentano Giacinto de’ Sivo “I Napolitani al cospetto delle Nazioni Civili” (Editoriale Il Giglio, Napoli 2016). Serata Progetto CompraSud con gli stand delle imprese meridionali e di prodotti tipici locali. Info: 081666440 – 3409021276 – 3334585433 (Stampa invito su editorialeilgiglio.it). VENERDÌ 29 LUGLIO 2016, ORE 18:00, MONTEROSSO CALABRO (VV), Villa Velia, I Cenacoli Monterossini presentano “Il Sud e le Calabrie: dai primati alle “questioni”; interventi di Antonio Parisi (Presidente Onorario Proloco Monterosso), Gennaro De Crescenzo (Presidente Movimento Neoborbonico), Marina Carrese (Presidente Fondazione Il Giglio); nel corso della serata sarà presentato il libro di Giacinto de’ Sivo “I Napolitani al cospetto delle Nazioni Civili” (Editoriale Il Giglio, Napoli 2016).

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ALDILA’ – La Notte dei Briganti

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“Aldilà – tra torto e ragione” è l’anteprima de La Notte dei Briganti, che assume quest’anno una valenza più significativa in quanto si tratta della decima edizione. Infatti, per celebrare questa importante ricorrenza, è stata realizzata una pubblicazione celebrativa dei 10 anni che sarà presentata proprio in occasione di Aldilà.
La pubblicazione dal titolo “La Notte dei Briganti – La borbonica guerra per bande nella Murgia dei Trulli” è stata realizzata dall’Associazione Sylva Tour and Didactics, con il contributo degli storici locali e dei numerosi collaboratori e partners della manifestazione che nel corso degli anni hanno contribuito a fare della stessa un evento di grande richiamo. La pubblicazione contiene, tra l’altro, i racconti delle dieci edizioni e le relative fotografie che sono state riprese nel corso degli anni. Per l’occasione interverranno gli storici Lino Patruno, Angelo Panarese e Angelo Martellotta che nel corso dei loro studi hanno affrontato la tematica del brigantaggio postunitario nel meridione d’Italia, insieme alla dott.ssa Antonella Pompilio (direttore dell’Archivio di Stato di Bari), a Giuseppe Palmisano (responsabile della sezione locale de I Presidi del Libro – partner della manifestazione) e Antonio Turco (responsabile della Compagnia Stabile Assai – Istituto di reclusione Rebibbia) per raccontare la collaborazione in questi dieci anni di evento. In conclusione il Presidente dell’Associazione Sylva Tour and Didactics, Luca De Felice spiegherà tutte le iniziative finalizzate alla celebrazione del decennale. Sarà questa l’occasione per presentare ufficialmente il trailer

“La Notte dei Briganti: la battaglia, la speranza”
che sarà utilizzata a fini promozionali.

Nel corso della conferenza stampa sarà illustrato il tema della X edizione: “Brigandaggio: tra resistenza e delinquenza” che trae ispirazione dal manoscritto ottocentesco del sacerdote Vitantonio Agrusti.
In considerazione della valenza storica e del richiamo turistico della manifestazione per l’intero territorio, si prega di dare massima diffusione al comunicato.
Il presente vale quale invito.
Per maggiori informazioni:
Donato Luca De Felice
Sylva Tours and Didactics
Tel. 3804111273- centrostudi_sylva@libero.it

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Novità editoriale: Gennaro De Crescenzo

 

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RECENSIONE E OSSERVAZIONI di PINO APRILE

Mettete al sicuro i bambini, nascondete la notizia ai vecchi, cercate le parole per dirlo alle donne, premunite i deboli di cuore: quella terribile setta che muove le fila delle in altri tempi note come Forze Oscure della Reazione è venuta allo scoperto. È appena approdato nelle librerie un libro che ne racconta la nascita e le gesta: “Noi, i Neoborbonici! – Storie di orgoglio meridionale”, edito da Magenes. Gli angeli hanno pianto, la terra ha tremato… (non è vero? Beh, abbiate pazienza e vedrete che succederà; di sicuro qualche prof che vi dirà che succede esce, esce…).

L’autore è quanto di più attendibile possa esserci, sul tema: il professor Gennaro De Crescenzo, fondatore del Movimento, 23 anni fa, con Riccardo Pazzaglia (sì, quello del “Brodo primordiale”, che le cose le sapeva davvero, ne sapeva tante e le raccontava con leggerezza; ed era un napoletano al cubo) e altri.

Chi sono i Neoborbonici? Un’associazione, un movimento culturale che non riceve soldi da nessuno, se non da chi ne fa parte o vuole occasionalmente contribuire a ricerche d’archivio, acquisto di testi e materiali di documentazione; non si sono mai candidati a nulla né hanno accettato candidature, nonostante possano contare su bacini di attenzione valutabili in almeno decine di migliaia di persone; si sono dati la regola di non votare e non farsi votare e di spendere tutte le loro energie al recupero della storia negata del Sud.

Ciò nonostante (o proprio per questo) i trombettieri di regime li additano quale pericolo mortale per la democrazia, perché aspirano a ripristinare il Regno delle Due Sicilie e il trono dei Borbone. Non è vero, ma non importa: intanto lo dicono. Lo scalmanato medievalista Alessandro Barbero ha persino scritto, in un libro con cui “dimostrò” che la fortezza di Fenestrelle, il carcere di massima punizione del sistema sabaudo, La Siberia d’Occidente, era una sorta di club Mediterranéé, che il revisionismo storico a cui (anche) i neoborbonici si dedicano ha “fini politici immondi”, quando non sono impegnati, i neoborbonici, nell’ordire agguati ai danni di Barbero, per impedire la presentazione di libri suoi o di “nativi” terronici a guida barberica (gira voce che l’ultima volta un neoborbonico-kamikaze con un giubbotto imbottito di candelotti o babà, la cosa non fu chiarita, riuscì a fuggire prima di essere catturato dai bersaglieri).

Certo è che il professor Barbero corre rischi seri: di caricatura. Proprio su Fenestrelle, sfidò a un pubblico confronto De Crescenzo e ne uscì malconcio (il presidente dei Neoborbonici ne parla ampiamente in un altro suo libro “Il Sud. Dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle”).

Da quando il potere marcio allo sbando ha scoperto l’esistenza dei neoborbonici, ne ha fatto un uso spudorato, moltiplicandoli, con autorevoli allarmi lanciati soprattutto dalle colonne del Corriere del Mezzogiorno e della sera (pomeriggio libero). Qualunque cosa ostacolasse il percorso delle magnifiche sorti e progressive, che magnifiche non si sono rivelate a Sud, e anzi regressive, la colpa è dei neoborbonici.

Non esistessero, avrebbero dovuto inventarli! Credo che i neoborbonici potrebbero chiedere di essere pagati per fornire una giustificazione buona per tutto (De Crescenzo racconta con leggerezza queste vicende, il che mi permette il tono scanzonato. E, d’altra parte, come fai a prenderli sul serio questi custodi del bidone masson-accademico minacciato dalle orde di lazzari e tamarri del terzo millennio!). A quel punto, cominciò la moltiplicazione dei neoborbonici: chiunque non aderisse alla vulgata risorgimentale filo-sabauda, diventava di fatto, neoborbonico. Ne sbucano, ormai, da tutte le parti: moltitudini.

Ho altrove riferito di un collega che mi disse: «Sei neoborbonico». «No», risposi, «sono amico di molti di loro, apprezzo il loro lavoro di ricerca storica, ma non sono neoborbonico. Non che ci sia qualcosa di male, ma non lo sono». «Lo sei», replicò lui, «te lo dico io». «Parli bene l’italiano, anche se sei turco», ribattei, allora. «Ma che dici? Sono italiano!». «Sei turco, te lo dico io», conclusi. Perché se questo è il filo logico che guida l’analisi del neoborbonismo…

Ma così accade ogni volta che le cose vengono giudicate per sentito dire. Per questo la lettura del nuovo libro di De Crescenzo è consigliabile a tutti: chi ne sa già qualcosa, perché il corposo volume di 330 pagine è una sorta di serena confessione documentata, con aneddoti, episodi che aiutano a inquadrare meglio quello che si sa; e soprattutto, dovrebbero leggerlo quelli che credono non ci sia altro da sapere.

Rimarrete sorpresi dalla pacatezza (il che non indebolisce la decisione) dei ragionamenti, la saggezza. Ed è un racconto onesto, in cui troverete commozione, entusiasmo, rabbia, speranza e una convinzione che governa il tutto: il recupero della verità su come andarono davvero le cose, nell’unificazione d’Italia, e sul danno che si fece e da allora si fa, al Sud, sarà la base per la nascita di una classe dirigente meridionale più sana e consapevole, non più coloniale.

Quando, con Riccardo Pazzaglia, decisero di darsi appuntamento con quanti intendessero dar vita a un gruppo di ricerca storica, speravano arrivasse qualche altro, a parte loro due, e si ritrovarono in 400. Oggi gli iscritti alla loro rete di informazione online sono più di ventimila, i visitatori del loro sito hanno raggiunto il milione e mezzo; e seimila le pagine di giornali che si sono occupati di loro. Eppure, i neoborbonici restano qualcosa di temibile e misterioso, nonostante le apparenze antropomorfe (narici: due; dispongono di braccia e gambe a coppie, come gli esemplari della luminosa specie homo sapiens, a cui appartengono gli inarrivabili Trota, Salvini e Santanchè).

Con questo libro, finalmente, la misteriosa tribù dei neoborbonici ha un volto e una biografia; non si tratta di una confessione, ma di una vera e propria delazione, con decine e decine di nomi: Roberto Maria Selvaggi, Alessandro Romano, Salvatore Lanza, Lorenzo Terzi, Eduardo Spagnuolo, Scipione Friguglietti, Raffaele Gargiulo, Gabriele Marzocco, Giosuè Coppola, Luigi Capuano, Filomena Rinaldi, Vincenzo Gulì, Salvatore Argenio, Annamaria Pisapia, Fiore Marro, Pasquale e Franco Zavaglia, Francesco De Crescenzo, Pompeo De Chiara…

Da quell’inizio a sorpresa, il racconto di De Crescenzo mostra come, mentre diversi dei fondatori passavano a miglior vita e altri sceglievano di dare origine a esperienze differenti, associazioni dello stesso segno, la platea si è allargata sino a costituire una preoccupazione e poi un pericolo per il potere che ha ingessato, a uso del vincitore, la storia dell’unificazione di questo Paese.

Le ricerche dei neoborbonici hanno prodotto decine di libri che sono divenuti attendibili fonti di riferimento per tanti altri, specie per opere di divulgazione. Il che ha sottratto il monopolio del racconto ai “padroni della storia costruita ufficiale”. L’opera di revisione e ricostruzione storica attiva oggi un mercato editoriale di centinaia di migliaia di copie all’anno. Fenomeno dirompente e imprevedibile da cui discendono ogni anno centinaia di manifestazioni, convegni, dibattiti in Italia e all’estero, specie negli Stati Uniti (a New York, alla Colombia university si è tenuto un seminario sui neoborbonici, con docenti americani e italiani). Al punto che il professor Galli della Loggia ha scritto, sull’edizione terrona del Corriere della sera, che ormai nelle scuole è prevalente l’idea che l’unificazione d’Italia non è andata come la si racconta da un secolo e mezzo, negli addomesticati libri di testo.

A questa vittoria culturale, cui tantissimo hanno contribuito i neoborbonici (insieme a Carlo Alianello, Nicola Zitara ed altri) corrisponde un crescente potere di influenza. De Crescenzo narra quale esito hanno ottenuto le campagne di boicottaggio da loro lanciate nei riguardi di giornalisti e giornali che si sono fatti portavoce coscienti o involontari di pregiudizi, razzismo, nei confronti dei meridionali. Da Aldo Cazzullo al telecronista Rai (poi licenziato) della domanda su “i napoletani puzzano?”, la stampa italiana ha sperimentato con stupore la vastità dell’ascolto che gli inviti dei neoborbonici riescono a ottenere; e altrettanto è accaduto ad aziende la cui pubblicità andava in onda in trasmissioni ormai noiosamente anti-meridionali come La Zanzara su Radio24 o L’Arena di Massimo Giletti, su Rai1.

“Noi, i Neoborbonici” smonta una caterva di luoghi comuni e leggende spacciate per storia (De Crescenzo è autore di documentatissimi libri sulla consistenza dell’industria meridionale, prima che i piemontesi la distruggessero; sulla biografia taciuta di Garibaldi; sul 1799 giacobino smitizzato. Ricerche che compaiono, in sintesi, nella seconda parte del nuovo libro, in una sorta di manuale, ricco di dati, sulla Questione meridionale, spezzettata in quindici domande, cui seguono risposte utili a chiunque per replicare con sicurezza a chi continuasse a spacciare fiabe antimeridionali per storia).

Ma la sintesi di questo importante libro è nell’aneddoto con cui comincia e che De Crescenzo riferisce, quasi a ogni conferenza: una ragazzina, dopo averlo ascoltato, a scuola, su cos’era il Sud, prima che lo colonizzassero, lo raggiunse e gli disse: «Tutto l’orgoglio che ci hai raccontato stamattina, lo conservo e lo racconto a mia figlia».

Avete tutto il diritto di parlar male dei neoborbonici e di pensarne peggio («Fra noi c’è di tutto», spiega De Crescenzo, «non siamo monarchici, non siamo nostalgici, non siamo reazionari, vogliamo solo che si sappia come andarono le cose»). Ma fatelo a ragion veduta: cercate di capire chi sono e leggete questo libro. Poi, magari, avrete più argomenti per non apprezzarli, o potreste scoprire interlocutori seri e disponibili, che sostengono le loro ragioni, ma sono abituati a confrontarle con quelle degli altri.

Visto che ci siete: contate le narici. Metti che mi fossi sbagliato…

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